Matilda, delitto impunito per legge L’assassino non si può processare

nostro inviato a Torino

Due processi. Due imputati. Due assoluzioni. Una sola vittima, una bambina di ventidue mesi appena, uccisa in un pomeriggio di luglio, nell’afa della campagna piemontese. E la giustizia che non sa dare una risposta, si contraddice, polemizza. A riprova che non sempre l’ultima parola della legge basta a fare chiarezza su quanto accade davvero nelle vicende degli uomini. Soprattutto quando la legge parla a due voci, e dice con una il contrario dell’altra.
Matilda Borin cessò di vivere attorno alle 16.40 del 2 luglio 2005, in una villetta di Roasio, vicino Vercelli. Morì perché aveva il fegato e i reni distrutti, non da un calcio - come si era detto all’inizio - ma da una pressione continuata e spietata, per non farla scendere dal letto o dal divano. In casa, con lei, c’erano solo sua madre Elena Romani e il suo nuovo compagno, Antonio Cangialosi. Uno dei due l’ha uccisa. Entrambi vennero indagati. Cangialosi fu prosciolto prima ancora del processo, con una sentenza confermata dalla Cassazione. Ieri la Corte d’assise d’appello di Torino ha depositato le motivazioni della sentenza che assolve con formula piena anche Elena, la madre. E torna a puntare il dito contro l’uomo, assolto dalla Cassazione con sentenza definitiva.
Scrivono i giudici torinesi: «Non c’è l’orco in questo processo. C’è molto banalmente (e viene fatto di soggiungere: per la banalità del male) una persona alla quale ha difettato la capacità di immaginare le conseguenze dell’atto che si accingeva a compiere. Cangialosi ha commesso un delitto insensato e feroce solo perché non è stato capace di comprendere che si trovava di fronte a una bambina nervosa, delicata e priva di difese, ma il suo comportamento non può dirsi quello proprio di un mostro. È purtroppo quello di un uomo, per il resto abbastanza comune, che, senza possedere nessuna dimensione demoniaca e nemmeno una straordinaria malvagità, tuttavia ha mostrato di essere privo della qualità particolare per cui alcuni sanno identificarsi spontaneamente con il prossimo fino a comprenderne le emozioni».
Ed ecco, secondo i giudici, cosa accadde quel pomeriggio d’estate, dopo che Antonio ed Elena avevano fatto l’amore mentre Matilda dormiva, e dopo che la bambina aveva vomitato nel letto. «L’eventualità che la bambina, disobbedendogli, fuggisse di corsa all’esterno della casa dovette riuscirgli (a Cangialosi, ndr) inaccettabile. Non trovò evidentemente nessun mezzo diverso dall’uso della forza, e di una forza talmente smodata da essere fonte di gravissime lesioni, per dimostrare in modo inequivocabile a Matilda che doveva rassegnarsi ad obbedirgli. Il resto si comprende facilmente se si fa riferimento alla cultura e alla personalità del soggetto agente: di un soggetto naturalmente aggressivo e violento, orgoglioso della propria prestanza fisica, manifestamente incapace di comprendere, a causa dell’avversione che provava per la bambina (da questa ricambiata), l’assurda crudeltà del modo con cui stava operando nei suoi confronti. Premette quindi con violenza il piede contro la regione dorsale della piccola, indubbiamente solo con l’intenzione di spaventarla e di procurarle una personale sensazione di impotenza e di umiliazione per indurla a desistere dalla ricorrente tendenza a disobbedire ai suoi ordini, ma altrettanto certamente senza rendersi conto di causare, agendo con tanto sconsiderata brutalità, delle lesioni irreparabili».
Ma come è possibile, se queste sono le risultanze delle indagini, che Cangialosi sia stato assolto quasi subito e che invece in carcere e sotto processo ci sia finita la madre, la cui unica colpa «è di avere confidato con imprudenza nella lealtà del compagno»? È nel rispondere a questa domanda che la sentenza della Corte d’appello torinese si fa più dura, quasi indigesta: perché parla di cosa può accadere quando si fa giustizia a furor di popolo, quando la gente chiede «di organizzare, con le forme solenni del processo penale, un rituale catartico». E quando si fa giustizia sotto l’emozione di altri casi, di delitti mediatici: come se - dopo Cogne - di ogni bambino ucciso la cosa più semplice fosse diventata accusare la madre. «Questa Corte è dell’avviso che il procedimento a carico di Elena Romani abbia risentito con effetti negativi del pregiudizio sulla base del quale gli inquirenti hanno presupposto che fosse necessariamente vera un’immagine deformante dell’imputata, tacitamente associandola alle figure di altre madri omicide dei figli di cui parlavano le cronache, anche recenti».
E adesso? I giudici torinesi chiedono ai colleghi di Novara, titolari del primo processo, di rivedere l’assoluzione di Cangialosi: ma è una possibilità che la legge concede solo in casi eccezionali, davanti a nuove prove. Possono essere considerate nuove prove una perizia in più, un sopralluogo in più? Difficile crederlo.

La verità è che per la legge Elena Romani è innocente, Antonio Cangialosi è innocente, e chi abbia spensieratamente ucciso una bambina di nemmeno due anni non lo dirà la giustizia degli uomini. Ma, per chi ci crede, qualcuno più tardi e più in alto.

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