Politica

La Mecca saudita

È difficile sapere se c'è connessione fra l'attentato suicida a Eilat e la rapidità con la quale il premier palestinese Hanyeh e il presidente palestinese Abbas hanno accettato l'invito del re di Arabia Saudita di recarsi alla Mecca per tentare di mettere fine agli scontri fra miliziani di Hamas e miliziani di al Fatah che hanno fatto nelle ultime 48 ore 30 morti e diecine di feriti. Forse c'era in questo attacco l'intenzione dei mandanti di distogliere l'attenzione dal conflitto fratricida in Palestina; oppure un atto mirante a rialzare il prestigio di chi l'ha organizzato nell'opinione pubblica araba. Comunque stiano le cose è certo che i due contendenti palestinesi non si recano alla Mecca per «amor di patria» e per mettere fine ai loro contrasti ma per «guadagnare punti» in un scontro di potere che appare ormai insanabile.
Il leader di Hamas va alla Mecca molto più sicuro di sé che il leader di al Fatah. Ha dietro di sé la vittoria elettorale che lo ha portato alla testa del governo; ha dimostrato la sua capacità a non piegarsi alle pressioni e al boicotto internazionale; è riuscito nel corso dei passati 12 mesi a raccogliere fondi per armi ed esplosivi in grande quantità portando da 6 a 12mila il numero dei suoi armati. Le istituzioni educative e sociali di Hamas non sono crollate e nei sondaggi di opinione esso continua ad avere il sostegno della maggioranza della popolazione palestinese.
Il leader di al Fatah porta invece alla Mecca l'immagine di un presidente palestinese debole, incapace di imporre la sua autorità non solo sulle bande armate ma anche di ottenere da Israele concessioni che avrebbero giustificato la sua strategia negoziale. I sauditi, da parte loro, non sono imparziali nel conflitto che oppone Hamas ad al Fatah. Ideologicamente sono più vicini al primo che al secondo; vedono in Hamas una versione combattente «dura e pura» dei Fratelli musulmani, organizzazione islamica che hanno sempre preferito a quella «rivoluzionaria» dell'Olp, sostenitrice di una Palestina democratica e «laica» per la quale - oltre che per Arafat - i regnanti sauditi non hanno mai provato simpatia. Ciò che li interessa è che Hamas non cada sotto l'influenza degli hezbollah sciiti e di devozione iraniana, non che il presidente Mahmud Abbas e al Fatah vinca o che la guerra civile in Palestina oltre a rendersi conto di quanto importi al loro alleato americano la fine di questo conflitto fratricida palestinese e la ripresa dei negoziati con Israele. Tuttavia dietro l'iniziativa del re Abdallah di Arabia si nascondono due fattori che con la crisi interna palestinese hanno poco a che vedere.
Il primo è legato alla rivalità storica con l'Egitto per la guida del mondo arabo. In un'epoca che ha visto il crollo del panarabismo «laico» nasseriano e baathista siro-iracheno, ed il grande risveglio islamico fondamentalista è importante per il governo saudita affermarsi come la principale forza politica in un Medio Oriente instabile, lacerato dai suoi conflitti interni e dai problemi della modernizzazione, che rischia di passare sotto l'influenza dell'estremismo sciita guidato dall'Iran, in presenza del quale l'Egitto si è mostrato passivo, impaurito e internamente instabile.
Il secondo fattore riguarda Israele, l'Egitto dopo aver riconosciuto di aver raggiunto la pace con lo stato ebraico non ha più molti mezzi di pressione su di esso, soprattutto dopo il fallimento delle lunghe trattative per raggiungere un accordo per lo scambio di prigionieri detenuti nelle prigioni israeliane con la liberazione del caporale catturato quasi un anno fa.
L'Arabia Saudita invece di attrattive per Israele ne ha molte.

Anzitutto il riconoscimento dello Stato ebraico in cambio del quale qualsiasi governo di Gerusalemme sarebbe pronto di pagare un alto prezzo; poi la riconoscenza di Washington per un'azione capace di riportare la calma in Palestina e riaprire eventualmente le trattative fra israeliani e palestinesi; infine la possibilità che da questi incontri alla Mecca nasca l'occasione per giustificare un maggiore coinvolgimento dell'Arabia Saudita in Palestina e la possibilità - per il momento molto improbabile - che essa prenda la guida di una forza internazionale araba capace di dare ai palestinesi quello di cui hanno più bisogno: la costruzione delle istituzione del loro sempre più evanescente Stato.

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