Quando gli va malissimo, lo menano: « Dos anos atras un tipo me ne diede tante ma tante, quasi mi spaccò una costola ». Quando gli va male lo prendono in giro: «Non sei comunista? Peggio per te».Quando gli va un po’ meglio lo guardano come un matto e gli sorridono, e qualcuno a volte gli dice anche «bravo». Quando proprio proprio gli va bene, gli buttano qualche monetina nel vasetto di plastica che Busco porge per la sua questua. Piero Busco è, tecnicamente parlando, un mendicante. Vive di
elemosina. Il suo posto, conquistato da anni e verosimilmente difeso
con la necessaria determinazione, è potenzialmente redditizio: corso
Venezia, nel cuore di Milano, davanti all’entrata del seminario
arcivescovile, poco dopo le vetrine di Armani e quasi davanti a quelle
di Dolce e Gabbana. Insomma, Busco potrebbe starsene là tranquillo,
magari ostentare qualche malattia, commuovere in qualche modo i
passanti. Invece, da tre anni, Busco si è messo un cartello al collo.
Il cartello dice «Non sono comunista». Le parole, Busco dice di averle
scelte con cura: «Non ho scritto che il comunismomi fa schifo, non
ho attaccato, non ho insultato. Ho parlato di me stesso: io non sono
comunista. Tutto qui».
Non puzza di vino. Parla in un buffo miscuglio di italiano e di
spagnolo, «perché ho viaggiato tanto, facevo l’imbianchino, il
cameriere, quello che capitava. Ero un trabajadore indipendente ».
Dietro quel cartello - per apodittica che possa apparire la
dichiarazione - c’è un ragionamento, che viene spiegato
sinteticamente sul retro: «Il capitale crea ricchezza materiale».
Sono le 17.30 di un sabato pomeriggio d’autunno, e la ricchezza
materiale creata dal capitale invade i marciapiedi intorno a Busco,
scintilla dalle vetrine, ingolfa il corso sotto forma di Suv e di
Porsche. Sarebbe bello ragionare con Busco delle contraddizioni e delle
asprezze che il capitale porta con sé. Ma lui ha lo sguardo chiaro di
chi ormai la sua idea se l’è fatta, e non
vuole convincere ma nemmeno essere convinto. Alle sue spalle,
l’entrata massiccia del seminario. Che rapporto ha con i preti? «Ogni
religione ama soltanto quelli che la condividono. Più della religione
mi interessa la spiritualità».
«Sono un luchador , un lottatore. Non mi arrendo», dice Busco,
e solo lui sa a cosa non intende arrendersi: se al freddo che
incalza, all’indifferenza della gente, agli sguardi di compatimento.
«Ma mi diverto a vedere le facce della gente. Perché se Berlusconi dice
“non sono comunista” la gente pensa: per forza, è pieno di soldi,
perché dovrebbe essere comunista? Invece mi guardano, e vedono
quello che sono: un poveraccio. E non gli tornano più i conti».
Accanto a sé, per terra, ha un altro cartello che spiega un po’ il suo essere luchador .
C’è scritto: «È vero. Ho 63 anni, non percepisco nessun contributo.
Andiamo avanti». Andare avanti per Busco vuol dire vivere qua e là,
dormendo all’aperto, oppure «ogni tanto, quando ho abbastanza
soldi, faccio una notte in una pensione a poco prezzo». Non si lamenta
di come la vita l’ha trattato, scaraventandolo di qua e di là, tra un
lavoro e un altro, una città e un’altra, un dialetto e l’altro. Una
sola ingiustizia sembra stargli sul gozzo, che è il fatto di non poter
votare: « Perché no tiengo
una casa, e quindi neanche un indirizzo e senza indirizzo non mi fanno
votare. Se fossi Silvio, farei un decreto esplicativo di quelli che
fa lui solo per dire ho diritto di votare
anche se sono un poveraccio ». Se fosse zoppo, o fingesse di esserlo,
magari raccoglierebbe più soldi.
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