Il mercato è meglio degli euroburocrati

Dopo la crisi greca molti auspicano che la Ue diventi uno stato unitario. Ma l'economia è dinamica, non ha bisogno di Bruxelles

Il mercato è meglio degli euroburocrati

In questi ultimi mesi, drammaticamente segnati dalla crisi greca e dalle sue ripercussioni, ha acquisito ancor più forza la tesi secondo cui, dopo essersi data una sola moneta, l’Europa dovrebbe unirsi politicamente. L’idea di fondo è che un ordine giuridico comune esige un’armonizzazione istituzionale, poiché se - come molti pensano - le uniche regole possibili sono le leggi prodotte dai governanti, è impensabile una società europea priva di una compiuta democrazia a base continentale.

Vi sono però buone ragioni per contestare simile prospettiva.
In primo luogo, è necessaria una maggiore consapevolezza dei problemi connessi a un diritto a vocazione globale. In questo senso il recente volume di Mauro Bussani (Il diritto dell’Occidente. Geopolitica delle regole globali, Einaudi, pagg. 351, euro 19,50) aiuta a capire come il contrarsi delle distanze s’accompagni a un’accresciuta importanza delle differenze. La stessa globalizzazione economica non implica alcuna unità politica, poiché trae beneficio proprio dalla concorrenza fiscale e regolamentare di distinte giurisdizioni chiamate a competere.

Bussani mostra bene le difficoltà di un diritto contemporaneo di fatto ancorato a culture locali, ma al tempo stesso proiettato a definire uno spazio legale universale: per affermare la democrazia, proteggere i diritti dei minori e delle donne, ridurre le diseguaglianze. L’analisi è nutrita di realismo ed evidenzia come gli appelli ai valori universali scadano spesso nella peggiore retorica: non solo perché non si sa trarre le dovute conseguenze da quei principi, ma anche perché essi sono a più riprese utilizzati a fini di dominio. Qui non si tratta solo di denunciare l’interventismo umanitario, ma anche di svelare come le campagne contro il cosiddetto «social dumping» (le produzioni a basso costo dei Paesi poveri) celino la difesa europea e americana dei propri interessi, assai più che la preoccupazione per economie che - proprio grazie ai bassi salari - soltanto ora riescono a crescere.

Benché avverta con chiarezza l’utilizzo ideologico dei diritti umani, l’autore non rinuncia a ritenere necessaria la loro promozione e certo qui si avvertono le difficoltà di un’integrazione pensata comunque a partire dai dogmi della tradizione statuale e da un netto rigetto della concorrenza capitalistica. La critica verso larga parte delle politiche prevalenti è quindi focalizzata sui metodi, e non già sugli obiettivi.
Per individuare uno sguardo in parte diverso - in un quadro non già teorico, ma storico - può essere utile un corposo volume tradotto di recente: Il lauto scambio. Come il commercio ha rivoluzionato il mondo di William J. Bernstein (Tropea, pagg. 511, euro 24,90). Come Bussani, anche l’economista americano si colloca sul fronte progressista, ma nel raccontare lo sviluppo delle relazioni mercantili (dalle seti cinesi indossate dagli imperatori romani fino alla globalizzazione odierna) egli ne enfatizza il ruolo civilizzatore. Sono interessanti, ad esempio, le pagine su Richard Cobden, campione del liberalismo «manchesteriano» e promotore dell’abrogazione delle norme protezioniste che impedivano l’importazione dei cereali.
Purtroppo a Bernstein manca consapevolezza delle ragioni morali che militano a favore del mercato: non gli è insomma chiaro che protezionismo e welfare sono figli della convinzione che il potere possa e debba «regolare» la vita sociale, anche violando i diritti dei singoli. Ne Il lauto scambio si afferma che il capitalismo in genere favorisce l’integrazione sociale e la crescita: il che è già tanto, ma non basta.

Gli esiti quasi «miracolosi» dello scambio globale sono infatti da collegare al fatto che nel commercio si consolidano rapporti umani, s’intreccino relazioni, si costruiscano pratiche, si radicano norme. Al riguardo, va sempre ricordato come già in età medievale gli operatori del commercio avessero sviluppato un loro diritto del tutto autonomo (la lex mercatoria) e come tale rete continui a rivelarsi essenziale per la realizzazione di quel giusto equilibrio tra «globale» e «locale» di cui l’Europa stessa ha bisogno.

Nelle relazioni che attraversano i confini, il diritto condiviso che emerge è un artefatto specifico, delineato in contesti particolari e per scopi molto limitati. Ma fuori da tale ambito i sistemi normativi restano in larga misura legati alle peculiarità storiche.

In questo senso qualora gli Stati e le loro proiezioni globali si mettessero un po’ da parte e lasciassero più spazio alla libertà umana, una qualche ragionevole conciliazione tra universalismo e particolarismo, tra regole comuni e norme separate, potrebbe insomma trovare spazio più agevolmente.

Invece che mostrarsi debole e remissiva dinanzi alle ambizioni egemoniche dei burocrati di Bruxelles, l’Europa farebbe allora bene a valorizzare il dinamismo degli europei e le ragioni del libero mercato.

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