Cultura e Spettacoli

«La mia Africa esotica e barbarica»

L’esordiente Paola Pastacaldi racconta in «Khadija» la storia vera della nonna, nobildonna d’Etiopia

Khadija è il nome di una donna, il nome di una nonna. È il nome del romanzo che la nipote, scrittrice italiana, ha intitolato alla progenitrice africana vissuta nell’Etiopia di un secolo fa. Una storia vera: vero è infatti che Paola Pastacaldi, di toscana famiglia e trevigiana natività, discende da Khadija Ahmed Youssouf, nobildonna della tribù oromo di stirpe patrizia ed esotica estraneità. Vero anche, documentato dalle cronache dell’epoca, che il nonno paterno, Giuseppe Pastacaldi, partì dalla Pisa di fine Ottocento. Reo e fuggiasco per aver commesso il più grave dei delitti, l’omicidio in duello del migliore degli amici. Clandestino a bordo di una nave di esploratori salpata da Livorno per entrare nel Continente Nero dalla punta del Corno d’Africa. Adepto malgré soi in un viaggio d’iniziazione più che di scoperta, per il quale nessun capitano di ventura poteva aprirgli la rotta. Vero, infine, che una radice non remota (vecchia tre generazioni) ma profonda, scende nel suolo etiope ad allacciare la scrittrice veneta alla terra inverosimile di Harar, al fiabesco «Promontorio degli Aromi»: per alimentare di linfa sostanziosa e reale la sua penna di favolista. Il libro, infatti (Khadija, peQuod, pagg. 240, euro 16), è un debutto nel romanzo per l’autrice dei racconti per ragazzi C’era tutt’altra volta (Guanda) e L’indirizzo delle fate (Longanesi).
E romanzo è. Non il resoconto di un’esplorazione: anche se i consultati bollettini della Società Geografica e Commerciale comprovano ogni emozionata e «fittizia» descrizione. Né un diario dei ricordi di famiglia: anche se le linee delle mappe storiche riprodotte nel volume potrebbero intrecciarsi con le ramificazioni e gli innesti di un albero genealogico familiare.
Romanzo con postfazione. Superflua: compilata, chissà, per dissipare una timidezza di debuttante e relegata poi saggiamente in epilogo. Perché le informazioni e i commenti che sembrava doveroso fornire al lettore, ogni lettore raccoglie tutte nella traversata della narrazione. E quanto in citazione si dice nell’appendice, con le autorevoli parole dell’esploratore inglese Richard Francis Burton - «Quegli uomini partirono un secolo fa con un solo scopo: mettere se stessi e il loro mondo borghese di fronte alle magnificenze del resto del mondo» - è detto anche meglio nella prosa di colei che, nei panni di quegli uomini, del padre di suo padre che partì un secolo fa, si è messa per raccontare: «Harar, la Roma d’Etiopia, prendeva i vizi del mondo occidentale e ne faceva disegni arzigogolati, consegnandoli a una complessità di significati nei quali era necessario perdersi per ritrovare se stessi».
Tre righe per dire quanto accadde al protagonista di Khadija: al nonno Giuseppe che, di Khadija innamorandosi, si ritrovò. È quel che accade anche a colei che a Giuseppe ha prestato la propria voce per fargli raccontare in prima persona la sua storia? A lei l’abbiamo chiesto, che con il consanguineo e omonimo Pastacaldi si è messa in viaggio per ritrovare, da «Paola», un modo altro, del tutto diverso, di femminilità. A quale dei due (aviti!) eroi più rassomiglia?
«A entrambi e a nessuno dei due» (non) risponde la scrittrice: liberandosi immediatamente dalle trappole ambigue delle somiglianze di famiglia. «Il nonno non l’ho conosciuto mai: rapito dalla città sacra, non ne è mai tornato. È morto nel ’21, ed è seppellito là, ad Harar». E Khadija conserva ancora il suo enigma: ha la pelle di un colore diverso, parla una lingua intraducibile, è devota a una fede indefinibile. «È musulmana o copta?», ancora si chiede la nipote: «Figlia di una tribù di religione islamica, entra in scena con una croce in mano».
Diversità, religiosità, scoperta: tre parole chiave per dischiudere tre dei motivi di fondo che risuonano in tutta la storia. Scoperta: di sé forse, certo non solo del proprio passato. «No, il discorso familiare era interessante: abbastanza da fornirmi uno spunto. Ma il tema personale, per quanto fatalmente coincidesse con il mio destino, andava abbandonato. E la scoperta si è disvelata tutta esplorando la terra africana». Sul campo? «In biblioteca! Solo molto più tardi sono partita: dopo dieci anni di ricerca. Concentrata su una piccola fetta di continente e su uno spaccato ristretto di storia: non l’Africa, né l’Etiopia, ma la zona di Harar. Non l’intera vicenda coloniale italiana, ma uno stretto giro d’anni: corsi tra il 1880 e il 1920».
Non è poco, perché in quegli anni la cinquecentesca città musulmana serrava ancora (e già) tra le sue mura il prodigioso coagulo di etnie che le ha meritato il riconoscimento, da parte dell’Unesco, di patrimonio dell’umanità. E l’incursione tra quelle genti di Giuseppe bastava a rivelare l’atmosfera di un’epoca e la struttura di una civiltà: un senso del sacro quasi seducente che si respirava con gli Aromi del Promontorio, risuonava al crepuscolo col richiamo del muezzin e si ascoltava nella recitazione dei versetti del Corano, poetica ed evocativa come le pagine lette ad alta voce la sera dalla gente del deserto.
Attratto dal miraggio di un Altrove - «Harar, ancora lontana, viveva nei miei pensieri avvolta da un’aureola di luce diafana e quieta» - Giuseppe vive, dolorosamente, lo spaesamento in una cultura ignota: «Deve morire a se stesso, e perdere tutto quel che ha e che sa per rinascere a un incontro». E l’incontro arriva tardi. Khadija, nel romanzo, è lontana, come la città murata. Compare quasi nel finale, preceduta però da due sorelle «impossibili»: imparentate a lei (e all’autrice) solo dall’esser donne. Florence, l’inglese pensosa e carnale, con quelle «sopracciglia lunghe e folte che raccontavano di una forte profondità di pensiero», scrive Paola. E la sorella di Giuseppe, Ottavia, sposata al console, toscana trapiantata, «smarrita in un mondo barbaro carico di bellezza». Élite intellettuale, aristocrazia diplomatica: contrasto o complemento al patriziato tribale dell’eroina mora?
«Sono tre volti diversi di una stessa donna. Dovevo scorporarla in tre figure per fare luce sulla mia idea del femminile», dice Paola.

Luce iridata, diffratta e infine nera, come la pelle di Khadija: «Lei è bellissima - negli occhi della nipote -: non schiava ma libera e nobile, forte, intelligente e maliosa: perla nera e selvatica, emblema sconosciuto di femminilità».

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