«La mia clausura con 51.000 libri nel monastero più alto d’Europa»

La Valle Maira, in provincia di Cuneo, comincia a Dronero, paese natale di Ezio Mauro, direttore di Repubblica. A mano a mano che la strada s’inerpica verso il confine con la Francia, il primo scampanìo è infatti laico: mucche di razza piemontese, almeno un centinaio, tutte con le loro brave bronze al collo, trotterellano verso la morte occupando per dieci minuti la carreggiata. Un concerto assordante. Tre autotreni-prigione le stanno aspettando al varco nello spiazzo lungo la provinciale 422, fra boschi che in questa stagione strillano di ocra e carminio. Fra 48 ore saranno già diventate costate di fassone.
A Marmora la chiesa di San Massimo, intitolata al primo vescovo di Torino, ha uno stupendo campanile che però è senza voce. Un solo rintocco potrebbe far crollare tutto, hanno stimato i tecnici della Soprintendenza. Non solo il campanile: anche l’edificio sacro in stile romanico-gotico, che risale al XIII secolo. Perciò padre Sergio De Piccoli s’è costruito a sue spese una cella di cemento in mezzo al prato sottostante alla canonica, con sei campane in scala, dal mi bemolle al do alto. «Sono la voce di Dio. Anche se adesso la gente pensa che siano la voce che non ti fa dormire la mattina». A che cosa serva suonarle, non è ben chiaro neppure a lui, visto che ogni giorno, da 28 anni, si ritrova a celebrare messa da solo. Succede, quando si sceglie di vivere in un paese che d’inverno conta 22 abitanti e dal quale è scappato via persino il parroco.
Oggi che è sabato, e la celebrazione ha validità per il precetto festivo, a Marmora c’è la ressa delle grandi occasioni: due coniugi, un uomo, il fotografo e io. Più che a Natale. Tutti foresti di passaggio. Dopo l’«andate in pace», un montanaro consegna al monaco una sporta di pagnotte fresche. Grande delicatezza, considerato che il fornaio più vicino è a 10 chilometri più in giù, cioè 20 fra andata e ritorno.
In Alta Valle Maira parlano, pregano e bestemmiano in occitano, dialetto di origine provenzale. Il portone principale della chiesa, corroso dal gelo dei secoli, è sempre chiuso, almeno da quando non si trova più la chiave. Si entra da una porticina laterale, attorniata da affreschi che si sfarinano solo a guardarli. Il pavimento è fatto d’assi consunte. Nel buio del transetto si tengono compagnia un San Giuseppe col Bambino in braccio e un Sant’Antonio col giglio in mano. Li hanno collocati senza alcun ordine apparente accanto a un altare coperto da una tovaglia di seta dorata. Se ne stanno lì, rischiarati da un unico lumino, come se fossero capitati in chiesa per caso. All’esterno, un camposanto di lapidi storte piantate nel terreno scosceso.
Impreziosiscono la parrocchiale un’ara romana che celebra la vittoria in battaglia di Metilio Secondo nel primo secolo dopo Cristo, il fonte battesimale in pietra scolpita, pale d’altare ottocentesche e una Via Crucis su tela. Quanto basta per ingolosire i predatori di chiese. Non a caso l’intervista sarà interrotta da una telefonata in vivavoce di tale Sonia: «Padre Sergio, mi hanno detto che la polizia di Torino ha recuperato una Madonna del Seicento, con tre candelieri. Non sanno a chi appartenga. Magari è la sua. Provi a chiamare in questura». Risposta del religioso, che pure avrebbe tanta voglia di riportarsi a casa la statua lignea trafugata l’anno scorso: «Sì, ho capito, ma non posso mica riconoscerla dalla voce. Dovrei andare fino a Torino...». Un viaggio. E lui, che fra un paio di mesi farà 76 anni e si ritrova con due protesi di metallo al posto delle anche, non ha nessuna voglia di viaggiare.
Siamo a 1.548 metri. Di solito a metà ottobre qui è già caduta la neve. Padre Sergio si cruccia perché oggi non può mostrarci la vetta del Monviso e le altre cime, incappucciate di nuvole. Ha un debole per le montagne. Non per nulla nell’ordine fondato da San Benedetto da Norcia ha scelto la congregazione cassinense, che prende il nome dall’abbazia di Montecassino. «Anche Marmora è una torre di guardia. In mezzo alle Alpi. Eh, eh, ho fregato ai miei confratelli di Marienberg, in Val Venosta, 1.335 metri, il primato di monastero benedettino più alto d’Europa». Si nota subito che gli piace far stecca nel coro. Gli altri benedettini portano la cocolla bianca con le maniche molto ampie. «Io le ho fatte cucire strette: m’impicciavano troppo. E mi sono anche ripreso il mio nome, da quando sto quassù».
Che significa?
«Sergio è il nome di battesimo. In realtà mi chiamerei padre Ignazio. Mi fu imposto il nome del santo di Loyola l’anno che feci la professione, 1956, perché era il quattrocentesimo della morte del fondatore della Compagnia di Gesù. Allora usava così. Tutti gli ordini hanno copiato dai francescani. A padre Pio, poveretto, cambiarono persino il cognome: Pietrelcina, il paese di nascita, al posto di Forgione».
E come mai soprattutto alle suore impongono nomi stranissimi? Emerenziana, Riccardetta, Orsola, Leonella...
«Vigeva un’altra regola: nella stessa congregazione non dovevano esserci due religiosi a portare il nome dello stesso santo».
Qui è lei il parroco?
«No, no. Al massimo il sagrestano. Con la crisi delle vocazioni, lungo il corso della Maira sono rimasti soltanto tre preti diocesani, che devono badare a più parrocchie. Io gli tengo aperta la chiesa e celebro la messa: alle 16 nei giorni feriali, alle 10.30 nei festivi».
Presenze zero.
«D’inverno qualche sciatore per sbaglio la domenica».
Sconsolante.
«Sempre meglio celebrare messa da soli piuttosto d’avere davanti una folla che non sa nemmeno rispondere “E con il tuo spirito”».
Sul Calendario liturgico benedettino questo figura come monastero.
«Con un monaco solo. Sono tornato alla semplicità di San Benedetto, che di monasteri simili ne fondò 12».
Il suo superiore chi è?
«Un mio ex novizio: l’abate di San Martino delle Scale, fra Palermo e Monreale, monastero in cui nel 1500 visse il poeta mantovano Teofilo Folengo, detto Merlin Cocai, quello del latino maccheronico».
Da quanto tempo non celebra un battesimo?
«Dal 30 settembre. Ma non era una famiglia di qua. L’ultimo marmorese battezzato da me ha già fatto anche la prima comunione».
E un funerale?
«Quelli non mancano mai. La popolazione invecchia».
Le capita di confessare?
«Qualcuno di passaggio, ogni due o tre anni. Vengono a curiosare, come lei. Credono di trovare il monastero del Nome della rosa di Umberto Eco, con i frati e le celle. Scappano via subito».
C’è un peccato che fa fatica ad assolvere?
«La graduatoria dei peccati l’abbiamo fatta noi, non il Padreterno. Si figuri, qui si parla ancora la lingua d’oc. Spesso non capisco nemmeno i peccati che mi confessano. Ma Dio li capisce».
Da quanti anni è prete?
«Quarantaquattro».
Perché ha scelto il monastero invece della parrocchia?
«Non avevo la vocazione per l’apostolato. Mi piacciono il silenzio e la solitudine. Non è che sia molto contento di questa sua iniziativa, sa? Non ci tengo proprio a finire su un giornale».
Lo prenda come un fioretto.
«Fioretto, fioretto... E il ruolo di quel signore che ha portato con sé quale sarebbe?».
Ma come, non vede che la sta fotografando?
«Ah, è un fotografo. Anche le foto!». (Scuote la testa).
Diceva della solitudine.
«Avrei voluto farmi certosino. Sono stati loro, i certosini, a indirizzarmi dai benedettini. A me piace molto la liturgia, e quella dei certosini è assai scarna».
Quando sentì la vocazione?
«Durante il servizio militare nei carristi, ad Aviano, in Friuli. I miei compagni pensavano solo al sesso e alle cene in trattoria. Ho capito che non era la mia strada».
E che Dio esiste come l’ha capito?
«Me l’ha insegnato la mia mamma».
Potrebbe essersi sbagliata.
«No. Lo sento dentro di me che è vero. Nisi Dominus, frustra. Senza Dio, tutto diventa inutile».
Dov’è nato?
«A Casorate Primo, provincia di Pavia, diocesi di Milano, città nella quale ho vissuto dall’età di cinque anni. Abitavamo a Porta Ticinese. Quinto di cinque fratelli. Quattro sono morti, resto solo io».
Che impressione ha avuto la prima volta che è arrivato a Marmora?
«Di paradiso. L’ho cercato a lungo, questo posto. Solo che la canonica era semidistrutta. Un gruppo di volontari torinesi mi ha aiutato a restaurarla. Finiti i lavori, una tromba d’aria ha scoperchiato il tetto. Ho dormito per parecchio tempo in cantina».
È molto grande per una persona sola.
«Sono tre piani. Uno è interamente occupato dai libri. Ci sono cinque camere per gli ospiti. Apro a chiunque bussi. Non gli chiedo né da dove viene né dove va».
Mi parli della sua biblioteca.
«Sono arrivato qui con 2.000 volumi. Adesso ne ho 50.587. Prima che esca il giornale mi sa che saranno 51.000».
Chi glieli manda?
«Li compro. A patto che le case editrici mi facciano uno sconto del 20-30%».
Per chi li conserva?
«È una mania da collezionista. Non dico una follia, ma quasi. Ogni mese m’arrivano 900 e rotti euro di congrua dell’8 per mille. In banca non voglio tenerli, avendo pronunciato il voto di povertà. Perciò li spendo in libri. Un hobby che mi riempie le giornate».
Che per il resto come si svolgono?
«Sveglia alle 5. Vado per legna, cucino. E prego: mattutino, lodi, terza, sesta, nona, vespero e compieta. Però senza coro i doveri monastici sono tutta un’altra cosa. Mi manca il gregoriano, mi manca».
Non può intonarlo da solo?
«Qualche volta lo faccio, ma da soli è pesante».
Chi le ha insegnato a pregare?
«Sempre mia madre. Credeva in Dio però non andava in chiesa, aveva paura della gente. Da lei ho imparato il segno della croce e l’Ave Maria. Le conosco le mamme d’oggi, sperano che ci pensiamo noi a insegnare ai loro figli l’Ave Maria».
E suo padre andava in chiesa?
«Neanche lui. Tutto quello che Dio ha tolto ai miei genitori, l’ha dato a me. È un bel peso, eh».
Legge i giornali?
«Non arrivano. Non ho il televisore e neppure la radio».
Come ha saputo delle Torri gemelle?
«Il Corriere di Saluzzo, il settimanale diocesano, qualcosa ha messo. Di recente un milanese ha dimenticato qui il Corriere della Sera, così ho visto dell’incidente nella metropolitana di Roma. Quante pagine erano? Otto? Dieci? A che servono? Gira e rigira, la storia è sempre quella».
Le piace come predica Benedetto XVI?
«Perché, come predica? Non sento nulla. Ho saputo delle polemiche sulla lezione di Ratisbona. Ignoro come sia andata a finire. Ma il discorso era chiarissimo. Devono averlo capito male».
Dove ha vissuto prima di venire qui?
«Ho emesso i voti nella basilica di San Paolo fuori le mura a Roma e sono sempre rimasto lì».
Allora ha fatto il ’68 con dom Giovanni Franzoni, alfiere del dissenso, poi sospeso a divinis.
«Era il mio abate. Credeva in ciò che faceva e io lo ammiravo per questo. Però mi sono sempre chiesto se fosse compatibile con la vita monastica».
Lo era?
«Secondo me no. Sempre in giro per conferenze e contestazioni. Che c’entra col monastero? I benedettini sono un ordine di clausura».
Qui è clausura?
«Oggi le cose sono cambiate. Ma un tempo per visitare il monastero la regina d’Inghilterra doveva chiedere il permesso al Papa, nonostante per antica tradizione i sovrani inglesi siano canonici di San Paolo fuori le mura, così come i re di Francia lo erano di San Giovanni in Laterano».
Non restano molti medaglioni liberi per i ritratti dei pontefici sopra le arcate di San Paolo. Dicono che quando non ce ne saranno più finirà il mondo.
«O finirà il papato? Tutte superstizioni. Come il terrore del 31 dicembre 2000. Che cos’è successo alla fine del millennio? Niente. Siamo solo diventati più vecchi».
Fa molto freddo qui d’inverno?
«Fino a meno 18. Un anno da ottobre ad aprile ho misurato sette metri di neve».
Le capita di restare bloccato?
«Non me ne accorgo nemmeno».
Con che cosa si scalda?
«Ho solo la stufa a legna in cucina. Tutta salute. Dormo al freddo da quand’ero bambino».
Costa più sacrificio la convivenza con i confratelli o l’eremitaggio?
«Dipende dai caratteri. Non tutti sono gradevoli, per cui vivere insieme diventa faticoso. Ma coro e preghiera comunitaria sono essenziali per un monaco».
Si litiga nei conventi?
«Sì. Siamo uomini come gli altri. Negli ultimi tempi a San Paolo ero in rotta col capo cantore».
Perché?
«Non lasciava cantare gli altri. Conosceva bene la musica, niente da dire. Però ai vespri pretendeva che si sentisse solo la sua voce. Io gli facevo il verso. Ci guardavamo in cagnesco». (Ride).
Quando sta male che fa?
«Mi tengo il male. La farmacia è a 20 chilometri».
È importante l’alimentazione per un religioso?
«Sì. Diventa un esercizio di obbedienza. Nei monasteri non ti dicono mai che cosa troverai in refettorio. Si mangia quello che c’è, senza eccezioni».
È carnivoro o vegetariano?
«I benedettini hanno l’obbligo di magro il mercoledì e il venerdì. La carne non la compriamo mai. Ma se ce la regalano, la mangiamo. Come il vino: se me lo portano, lo bevo. Altrimenti acqua».
La vostra regola è Ora et labora. Più preghiera o più lavoro?
«Più lavoro. Se stai alzato 18 ore, non puoi farne 9 di preghiera. Io non ci riesco».
Si sente più vicino a Dio quando prega o quando lavora?
«Siamo sempre vicini, anche quando non facciamo niente. Comunque la regola è Ora, lege et labora».
Legge molto?
«Mio padre era tipografo rilegatore. A sei anni mi dava da scucire i libri sfasciati che poi avrebbe rimesso in sesto. Ho letto a sbafo tutto il leggibile. Oggi mi riesce di farlo soltanto per frammenti. Mi viene la nausea. Nessuno scrive più nulla di nuovo».
Nella biblioteca tiene anche opere di altre culture e religioni?
«Certo. Per combattere il diavolo bisogna conoscerlo».
Che cosa pensa dei musulmani?
«Ne ho ospitato qualcuno. Beveva vino e mangiava maiale. Però veniva a messa».
Non molto ortodosso.
«Io vedo un solo pericolo: l’ignoranza. I musulmani conoscono benissimo la loro religione, anche se poi non la seguono. Ma noi? Messa di Pentecoste, chiesa gremita. Il parroco chiede: “Quanti di voi sanno che cos’è la Pentecoste?”. Uno solo dei fedeli alza la mano. Visto con i miei occhi. I cattolici non conoscono lo Spirito Santo, cioè la Trinità, cioè Dio».
La legge italiana deve accogliere le istanze dell’Islam?
«Soltanto finché sono compatibili con la nostra civiltà. Nemmeno la Chiesa, del resto, vede accolte dalla legge le proprie istanze. I cattolici non divorziano, non abortiscono, non celebrano matrimoni gay. Eppure lo Stato ha introdotto il divorzio, l’aborto e presto arriverà alle unioni omosessuali, vedrà».
Il celibato per lei è stato un peso?
«Eh, un po’ sì. Mi sarebbe piaciuto avere una famiglia».
Cioè le è mancata una donna.
«Be’, a chi non mancano le donne? Difatti non sono contrario al matrimonio dei preti. Per i monaci è diverso. Come farebbero a stare in monastero con le mogli?».
Ha mai la sensazione d’essere dimenticato o abbandonato?
«Ringrazio Dio se avviene».
E d’essere dimenticato da Dio?
«Quello è impossibile».
E d’aver sprecato la sua vita?
«Nemmeno.

Sono contento d’essermi fatto benedettino e spero di morire benedettino a Marmora».
Di perdere la fede ha mai paura?
«Qualche volta sì, quando leggo questi libri».
(350. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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