A Milano la Cgil umiliata in piazza: quattro gatti contro 100mila no global

Primo maggio, prova di forza dei centri sociali mentre i confederali raccolgono neppure tremila manifestanti, per la maggior parte pensionati

A Milano la Cgil umiliata in piazza: quattro gatti contro 100mila no global

da Milano

No party, no Primo maggio. Senza il mega concertone e i cantanti da hit parade, a Milano il sindacato fa flop e il derby con la sinistra-sinistra finisce tanti a pochi. Anzi, tantissimi a pochissimi. In qualche centinaio (nemmeno 3mila) la mattina dietro gli striscioni di Cgil, Cisl e Uil a sfilare fino a piazza Duomo. In almeno centomila nel pomeriggio alla MayDay parade, il grande carnevale degli orfani della sinistra dedicato al mondo «precario e migrante». Chiamateli no-global, sindacati di base, centri sociali, sinistra radicale o autonomi, la bandiera rossa, cacciata dal Parlamento, si prende la piazza. E sfratta i vecchi tromboni del sindacato impegnati a tritare concetti stravecchi che più nessuno ascolta. Emblematico l’oratore (diciamo così) che dal palco parla di «sicurezza sul posto di lavoro» e «aderenza al Paese reale». Che novità. Peccato che lì sotto, lasciato solo solo, ci sia Pasquale Padovano, l’unico superstite della strage di Linate a cui il fuoco ha mangiato il volto e le mani. Ustionato all’80 per cento, 50 interventi chirurgici per riacquisire un po’ di vita, nessuno pensa di farlo salire. Una distanza tra sindacato e lavoratori che si vede anche nelle piccole cose.
Sul sagrato l’età media è piuttosto alta. «Ormai la maggior parte sono pensionati», ammettono. Gente che ricorda una Milano diversa. E anche un sindacato diverso se è vero che l’Ugl, il sindacato di destra, nell’ultima elezione della Rsu Pirelli Bicocca ha preso il 45 per cento dei voti e nove rappresentanti. I «fascisti» hanno espugnato il regno che fu di Sergio il «cinese» Cofferati, il fortino per più di cent’anni in mano alla Cgil. Un simbolo. Crollato, come tanti in questi giorni. Come Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, conquistata dai berlusconiani. «E voi non avete idea - si lascia andare una senatrice del Pd fresca di Palazzo Madama - che botta sia stata la vittoria di Alemanno. Quanto male l’abbiano presa a Roma». A guardarsi un po’ in giro, anche a Milano il popolo dei veltroniani non se la passa poi un granché. E la piazza desolata di questo Primo maggio è lì a dimostrarlo con il secondo spezzone del corteo, quello dei marxisti-leninisti e del Partito comunista dei lavorati, diventati ormai maggioranza. «L’anno prossimo - scherzano, ma non troppo - andiamo noi al Duomo e mandiamo i sindacati in piazza Santo Stefano. È piccola, ma per loro ce n’è più che abbastanza». Uno sberleffo. Ma niente a confronto dell’umiliazione del pomeriggio. Della marea che sfila dalle due alle tre di notte quando finisce il concerto.
Praticamente «un rave party», sono costretti ad ammettere anche in questura, che s’impossessa del centro. «Qui c’è un mondo precario che chiede risposte», assicura Daniele Farina, il portavoce del centro sociale Leoncavallo, deputato nell’era Prodi e ora dopo la batosta della sinistra arcobaleno tornato «extraparlamentare». «Un lavoro per vivere, non per morire», lo slogan di un ragazzo molto più efficace del politichese incomprensibile sentito la mattina. «È tempo di godere» l’omaggio intelligente (ma sicuramente involontario) ai quarant’anni del Sessantotto. Peccato che in tanti, troppi, imbocchino strade sbagliate. Il ragazzino rolla l’ennesima canna con un’abilità sorprendente. «Quanti anni ho? Quasi quattordici?». Quasi quattordici? «Lo fanno tutti, lo faccio anch’io». È brutto perché la cultura dello sballo è contagiosa come la peste nera. Perché per chiedere un lavoro e un futuro migliore si passa attraverso la droga e fiumi di alcol. Piaghe peggiori delle bombolette spray che sfregiano i palazzi. S’infuria il vicesindaco Riccardo De Corato che denuncia due writer sorpresi dalle telecamere. Le scritte si cancellano, le cattive strade sono più difficili da abbandonare. Una dozzina di tir sparano la techno-house a palla, una ragazza lancia braccialetti antistupro. «Sono quelli di Rutelli. Di stoffa, dentro ci sono le frasi per dissuadere i malintenzionati». Goliardia. «Il futuro è nostro. E lo vogliamo comunista». Magari bisognerebbe spiegarlo anche agli operai della Pirelli.

O a quell’egiziano (regolare) intervistato da Radio Popolare. «La manifestazione? No, vado a casa a preparare la mia roba. Io domani alle quattro mi devo svegliare per andare al lavoro». Il Primo maggio è proprio finito.

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