Politica

Milano tradita anche dal Giro d’Italia

Schiaffo a Milano, cent'anni dopo. Qui il Giro è nato, qui il Giro viene accoltellato alla schiena. È un'imboscata vigliacca e meschina, proprio nel giorno della grande celebrazione. A tendere l'agguato, davanti a migliaia di tifosi increduli e inebetiti, i ciclisti: se li chiamo ancora così, è solo per pura convenzione, per semplice comodità di linguaggio. Da un punto di vista ideale, non sono più degni di questo titolo. Dovrebbero andarsi a nascondere, dopo la porcheria che si sono inventati. Caro diario, con molto disgusto, riassumo brevemente: le madamigelle del gruppo, sobillate da un pensionato che risponde al nome di Lance Armstrong, decidono di correre una non corsa. Dieci giri nel circuito di Milano ad andatura ridicola e provocatoria, con la farsa di una volata finale. Sarebbe, questa, una protesta contro la pericolosità del percorso.
Come spiega in una sosta sul traguardo la maglia rosa Di Luca, che senza provare vergogna si fa portavoce del neo-sindacato degli smidollati, «la tappa non è sicura: ci scusiamo con i tifosi, ma siamo certi della loro comprensione...». E come no: il pubblico è talmente comprensivo, che giustamente e sacrosantemente li ricopre di fischi e di insulti. Andate a lavorare è l'invito più signorile che echeggia nei cieli di Milano. Il problema è capire quale mansione siano in grado di eseguire, queste educande.
Tanto per essere subito chiari e non affaticarci con inutili chiacchiere: il percorso è perfetto. Strade larghe, curve normalissime, un vialone d'arrivo lungo e dritto. Con un dettaglio in più: è asciuttissimo. In altre parole: nessuno potrebbe pretendere di meglio, salendo in bicicletta. Basterebbe chiedere agli amatori che tutti i giorni affrontano il ciclismo veramente rischioso, quello dei Tir che stringono in curva e delle sciure che aprono la portiera a bruciapelo. Il circuito di Milano è l'ideale per una kermesse celebrativa, non a caso definita "Milano-show". Eppure, le madamigelle del gruppo puntano i piedi. Certo incide sul loro umore la terribile caduta dello spagnolo Horrillo, il giorno prima (a proposito: operato, dovrebbe farcela). Ma è una scusa troppo fumosa. Ci sarebbero mille altri modi per manifestare la paura. Molto più attendibile è invece la spiegazione legata ad Armstrong: il pantofolaio texano, evidentemente sbarcato in Italia per farsi un Giro turistico, sta piantando grane da giorni. Carica i colleghi più giovani, scrive frasi di fuoco sul proprio sito, manda mail minacciose al patron Zomegnan. Non gli vanno bene gli arrivi, non gli vanno bene le discese, adesso non gli vanno bene manco le pianure. È chiaro ormai a tutti come chiamarlo al Giro si stia rivelando un terrificante boomerang. All'inizio ha tenuto in piedi il battage pubblicitario dell'evento, contribuendo a riempire di folla le strade rosa, adesso si sta trasformando in un'autentica palla al piede.
Proprio un bell'affare: già gli hanno disegnato un percorso-vita dall'evidente tenore riabilitativo, abolendo tutte le montagne vere per evitargli sforzi violenti, adesso bisogna pure subirne le lune senili. Con la sua età, con la sua personalità, con le sue glorie, in gruppo detta legge. Ed eccolo finalmente qui, dopo giorni di mugugni e di minacce, guidare la rivolta nel giorno più simbolico e celebrativo. A questi rivoltosi d'avanspettacolo non basta nemmeno vedere la giuria e l'organizzazione a brache calate, quando accettano di non tenere conto degli eventuali distacchi (si dice: tappa neutralizzata). Niente, vogliono la piazzata plateale, loro. Si sentono molto forti. Tanto, se il Giro va a rotoli, che importa ad Armstrong? Questa è la prima e l'ultima volta che si fa un Giro turistico d'Italia, non può prendersi a cuore il futuro della nostra manifestazione più popolare.
Risultato: la pagliacciata rosa raccoglie un plebiscito di rabbia e di condanne. Il pubblico se ne va inferocito. Cipollini è il più chiaro: «Il percorso era perfetto. Non c'erano motivi per cose del genere. Va bene, a Bergamo c'è stato un incidente. Ma sono i rischi di questo mestiere. Non mi risulta che i discesisti della libera si lamentino perché c'è ghiaccio in pista...». Persino sul palco Rai, una volta tanto, giganteggia Auro Bulbarelli, che non esita a chiamare le vergogne con il loro nome (soltanto il forlaniano Cassani cerca di smorzare, mentre l'intervistatrice da strada De Stefano riesce a definire «una bella prova» la compattezza dei corridori). Irriferibili le autodifese dei campioni nel dopo-farsa. Al termine di questo bel Centenario, sopravvive soltanto l'enorme spot negativo, per una categoria di lavoratori che già non ne avrebbe molto bisogno per i noti motivi (curiosi, i ciclisti: temono per la propria salute se c'è una rotaia a Milano, non si preoccupano quando si sparano in vena ogni genere di porcheria chimica).
Caro diario, meglio stendere un velo pietoso.

Ci sarebbe anche un vincitore, Cavendish, ma per pura dignità mi rifiuto di raccontare una simile commedia. Adesso mi viene male al solo pensiero di quello che succederà per la cronometro finale di Roma, lungo i Fori Imperiali: cosa chiederanno le madamigelle del gruppo, di spostare con le ruspe il Colosseo?
Cristiano Gatti

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