C'erano ancora i megafoni. E i sindacalisti cattivi. Quelli che gridavano a brutto muso. Incitavano alla lotta gli operai. Mentre qualcuno urlava. «Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi». E i mesi erano pochi davvero, ma erano i loro. Non quelli dei «padroni». In giacca e cravatta. Negli uffici con l'aria condizionata. Mentre firmavano la chiusura dello stabilimento. E dietro quell'oceano di volti - rigati e corrugati - si nascondeva il terrore. Il posto di lavoro si perdeva. La catena di montaggio traslocava. Altrove. A poca distanza da lì. Un cancello che si chiudeva alle spalle era pur sempre una pietra su un pezzo di vita. Quella che era stata. E del doman non v'è certezza . Ciro Parondi ci era venuto dalla Lucania, per lavorare all'Alfa. Dopo la morte di papà. Con le valige di cartone, legate con lo spago. Era uno dei fratelli di Rocco. E Luchino Visconti, comunista poco ortodosso ma molto milanese, li aveva gettati sul grande schermo con le loro miserie. Fatte di emigrazione e povertà. Di una tentata integrazione. Stranieri in patria.
Erano gli anni del boom, quelli di Ciro, che poi ce l'aveva fatta. L'aveva visto crescere il Portello. E ricordava il giorno in cui, da lì, uscì la prima Giulietta. Era il '55 e Giuseppe Luraghi guidava già l'azienda. Ma da lontano. In via Gattamelata spedì il suo luogotenente. Francesco Quaroni lo aveva conosciuto in Pirelli e fu un incontro strano. Gli era stato detto che alla stazione avrebbe trovato un dirigente ad accoglierlo. E così fu. C'era il Quaroni, appunto, ma andò a prenderlo in bicicletta. L'approccio ruspante cementò l'amicizia. Quando poi il boiardo di Stato approdò a Finmeccanica già guardava al Portello. E in avanscoperta mandò proprio lui. L'Alfa piangeva, allora. E il fiocco rosa fu Giulietta, una «bimba» con tre papà. Luraghi e Quaroni in aggiunta a un austriaco, Rudolf Hruska, ingegnere come loro che, a loro, diede coraggio. Nel '38, su imbeccata di Hitler, aveva disegnato il Maggiolone con un progettista boemo, tale Ferdinand Porsche che, solo nel '48, dopo una ventina di mesi nelle galere francesi per collaborazionismo riuscì a mettersi in proprio... Quell'auto rappresentò un'era. Oltre 21 milioni di esemplari prodotti e primato a quattro ruote.
Al Portello Hruska ripetè il prodigio. Ma in scala. Nel '54, al Salone di Torino, fu presentato in anteprima il modello della vettura che sarebbe uscita l'anno dopo. Fu un successo. E il bis arrivò di lì a qualche tempo. Era il '62 e la Giulia prese il posto della sua omonima con vezzeggiativo. Il Miracolo economico aveva due volti. Quello di Fiat, italico status symbol di conquiste sociali. Le 500 e 600 con il portapacchi. In coda al casello la sera del 30. Ultimo sabato di luglio. Fabbriche chiuse per ferie italiane. Partiva un Paese intero. Milioni di famiglie Brambilla in vacanza. E quello dell'Alfa. Sprint e velocità. Sorpasso. Grinta. Strade divorate. E asfalto bruciato. Nel '60 la benzina costava 110 lire al litro. Dopo un lustro era salita a 120. Si accelerava a cuor leggero.
Fiat versus Alfa era Torino contro Milano. Ma il campanile non c'entra. Gli alfisti erano alfisti. Punto. Le altre auto - tutte - non avevano aggettivo per chi le guidava. E non era questione geografica perché le radici del Portello affondano a Posillipo.
Pierre Alexandre Darracq era un basco di stampo francese. Baffo ottocentesco e tipo intraprendente dall'intuito frizzante. Nel 1891 aveva 36 anni e un'ambizione. La bicicletta. Creò la Gladiator e ne vendette una tombola. Così ci provò con le macchine e, ai primi del secolo, aprì una filiale a Napoli. Ma ci rimase ben poco, sotto il Vesuvio. Puntò sulla più tecnologica Milano. Già allora. Scelse la periferia, ma sulla rotta transalpina.
Alle spalle era la città. La carrozzabile puntava dritta verso la Francia. In fondo alla strada stava solo una porticina. Era piccola piccola. E vi si entrava a fatica. Occorreva chinarsi. Raggomitolarsi. Ma una volta all'interno, si mangiava bene. Piatti milanesi e una boccia dell'Oltrepo. Osteria del Portello. E tale rimase. Anche quando vi approdò Darracq. Le sue automobili però non erano adatte alle strade italiane. E fu un flop.
Il basco non volle rimetterci e vendette a una cordata di imprenditori locali e napoletani. Nacque l'Anonima lombarda fabbrica automobili. Alfa, appunto. Era il 24 giugno 1910. E cinque anni dopo fu rilevata da un industriale partenopeo, Nicola Romeo, che di quella pattuglia faceva parte. Calvo, sguardo vispo e baffo autoritario aggiunse il suo cognome al nome dell'azienda che divenne Alfa Romeo. Ma il sogno di quel senatore del Regno rimase strozzato nel desiderio. Mancavano i concessionari. Le vendite non avevano lo sprint dei bolidi che fecero innamorare il Duce perché davano lustro all'Italia. E nel '21 l'Alfa finì in mano alle banche. Poi allo Stato. Purché non morisse.
Dopo la guerra arrivò il Luraghi. Prima da lontano, poi vicino. Vicinissimo. Quali affinità leghino la poesia ai cazzotti, nessuno lo ha mai capito davvero. Meno che mai, come questi si sposino all'imprenditoria. Ma è un fatto che quell'ingegnere, cresciuto tra i numeri, amava le liriche e il pugilato. Scrisse varie raccolte in versi e si legò a Leonardo Sinisgalli, poeta di lustro, per creare una rivista aziendale che parlava di pneumatici ma soprattutto di arte. Scienza. E naturalmente letteratura. L'Alfa arrivò dove non era mai arrivata e il simbolo stava in quel nome. Giulietta o Giulia. Forse casuale. Ignorando che una delle figlie di Nicola Romeo si chiamava proprio così. Nomen omen .
Le fortune di Luraghi e dell'Alfa iniziarono a morire nel '74. Quando al Portello entrò la politica. Il presidente dell'Iri di nomina democristiana, Giuseppe Petrilli, napoletano anche lui, iniziò ad alzar la voce per aprire uno stabilimento in Irpinia e compiacere il ministro dell'Industria, un emergente Ciriaco de Mita. L'Alfasud di Pomigliano tolse linfa al Portello. E nel 1986 Cipputi uscì per sempre da via Gattamelata. Tra megafoni. Urla. E sindacalisti arrabbiati. Nasceva una Milano post industriale che per quasi trent'anni ha portato al Portello fiere specializzate. Manager. Clienti. E colletti bianchi. Ora, dove una volta stava la catena di montaggio, ci sarà un parco. Alberi. Alberghi. E la tana del Diavolo. Lo stadio del Milan. Dove a urlare saranno i tifosi. Stavolta. Senza megafoni. Ma arrabbiati come i sindacalisti di un tempo.
La Giulietta fu presentata al Salone di Torino nel 1954 e raccolse 700 ordini di acquisto con un anticipo di dodici mesi. Uscì infatti nel '55 e rimase in produzione per dieci anni. Ben 131.
876 gli esemplari messi in circolazione, prima che il modello fosse rimpiazzato dalla Giulia. Fin dal 1962, anno di nascita, quest'auto attrasse il favore degli italiani e si rivelò un grandissimo successo. Rimasta in produzione fino al 1977, ne furono vendute oltre un milione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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