Nel tratto che va da piazza delle Milizie a piazzale Lotto la linea regina, la 90/91, attraversa una zona di turbolenza da noi già lambita più volte nel corso di altre escursioni, per proseguire sul margine tra vecchi esperimenti di edilizia popolare (il già recensito quadrilatero gravitante su piazzale Selinunte) e alcune distinte aree signorili che potremmo però riunire sotto la generale definizione di «Paradiso dei Decoratori», data l'ingenza dei contratti che le ditte costruttrici, ben pagate dai committenti, stipularono con i migliori stuccatori del globo.
Intorno a questi due nuclei - accomunati da una specie di tangenza tra bellezza e bizzarria (o ridicolo) così tipica del resto dello Spirito Milanese quando questo si dà all'estetica - si svolge la nostra passeggiata odierna.
Rispetto al tratto visitato due settimane fa, caratterizzato dalla vicinanza della sede ferroviaria e quindi dalla separazione netta della città in due fronti quasi incomunicanti tra loro (perlomeno dal punto di vista del paesaggio), qui la sutura tra le due sezioni di città, sembra essere tracciata dalla stessa 90/91 che vi corre scavando il solco e risanandolo, come una mano che apra e chiuda una zip.
E' esattamente questa - di una mano che apre e chiude cerniere - la prima sensazione che provo appena sceso sul ponte delle Milizie, con il Naviglio Grande sotto i miei piedi. Qui si palesa all'occhio la turbolenza di una delle zone più belle e piene di fermento della nostra città, con l'antichità di S. Cristoforo, le vecchie case del Naviglio, le fabbriche riconvertite, i nuovi edifici che premono su tutta questa porzione di circonvallazione - diciamo da viale Cassala a piazza Napoli - e le zone ancora degradate o in smantellamento che però l'avanzata di un esercito di Ristrutturatori e di Loftizzatori cancellerà ben presto.
Un complesso edilizio molto grande si presenta dalla parte di via Tortona. Inizialmente sembrerebbe ancora in costruzione, tanto è accidentata la fascia che ci separa, invece alla fine si presenta con bella ferocia sull'angolo tra il piazzale e la celebre via modaiola: «Tortona 37» è il nome, protervamente esibito in strada.
Decido di raggiungere via Savona, che forse a causa delle sue dimensioni anomale (è lunga circa tre chilometri, tutti rettilinei) mi attira di più per la varietà di paesaggi che presenta. La stradina di raccordo, via delle Foppette, trattiene ancora un lembo della zona così com'è stata fino a qualche anno fa: popolare, bruttina e dignitosa.
Percorro via Savona fino all'incrocio con via Bergognone. E' la mia scelta di campo per quest'oggi: esplorare il margine della 90/91 che dà sul centro - anche perché l'altro margine è stato già esplorato -. La cosa un po' mi dispiace perché il lato esterno di via Savona, meno ristrutturato, ci presenta una tipica strada di periferia milanese, con fabbrichette, officine sovrastate da abitazioni tutt'altro che brutte, case decorose piene di quella dignità che più di ogni altra è la cifra visiva (e secondo me anche profonda) della nostra città.
Nel mio tratto, ad ogni buon conto, si può apprezzare la discrezione di chi ha voluto trasformare questa parte di via Savona in una strada elegante senza però stravolgerne, e anzi valorizzando, la bella architettura ordinata, funzionale e senza fronzoli.
Per riprendere la 90 percorro un tratto della bella via Bergognone per rientrare in via Solari, alberata e assolutamente infotografabile. Questo non vuol dire che sia brutta: è, semplicemente, un altro aspetto di Milano, che spesso (e, come vedremo, in zone anche molto belle), tende a coprirsi il volto con la mano non appena si sente inquadrata dall'obiettivo.
In piazza Napoli risalgo per scendere poco dopo, in piazzale Tripoli. Molti anni fa abitai in questa zona piuttosto ricca, che respinge più in là i palazzi popolari per offrire un'idea di piacevole agiatezza. Imbocco via Sardegna, uno dei tre lati (con via Costanza e via Washington) di un piacevole triangolo nel quale penetro fino al suo centro (piazza Imerio) tramite via Cavalcabò, dove si legge con chiarezza la lenta conquista borghese di un territorio originariamente popolare.
Ci troviamo infatti ai margini di una zona benestante, ma qui l'aria delle strade e degli edifici (che immagino costosetti) è più dimessa, più ordinaria, se si esclude il prepotente palazzone giallo al civico 2 di via Cavalcabò, che a giudicare dalla facciata si direbbe abbia dato lavoro per qualche anno a tutti i decoratori in giro per città e provincia.
Qui, più che altrove, grazie al circostante clima di eleganza ordinaria - come se qui si fossero insediati i figli cadetti, o meno abili, o meno fortunati, di alcune grosse famiglie borghesi - possiamo constatare quanto diventi bizzarro il gusto milanese non appena tenti di abbandonarsi al puro godimento estetico, rinunciando al suo consueto stile dalle forme sapienti ma un po' spicce, sbrigative. Il milanese è understated per natura, non conosce l'arte dell'esagerazione, e quando la pratica sa produrre cose di pregio, sì, ma anche un po' baüscia.
Ma per addentrarci meglio nell'universo degli Stuccatori, dove il milanesissimo Decoro lascia decisamente il posto alla Decorazione (anche lei milanese, ma più buffa) è meglio risalire sulla 90 e percorrere un altro tratto di nuova turbolenza. Qui i viali (Misurata, Ranzoni) che mi separano dalla nuova discesa in piazzale Brescia appaiono stretti fra il quadrilatero sbieco sulla sinistra, popolarissimo (viale Aretusa corre parallelo a poche decine di metri), e le vie e le piazze borghesi sulla destra (Frua, De Angeli, Correggio ecc.).
Piazzale Brescia è uno degli esempi urbanisticamente più drammatici della città, spaccato com'è in due: sulla sinistra guardando la mappa di dipartono le vie Dolci e Osoppo, divergenti di 90°, che costituiscono i confini orientali del quadrilatero popolare. Questa parte della piazza conosce anche una storia di malfrequentazione, come possono testimoniare i preti della chiesa di s. Protaso, che sul piazzale si affaccia con il suo tipico ammattonato.
Di tutt'altra natura è il paesaggio sull'altro lato della piazza, che presenta villette stravaganti e ben presidiate dai decoratori, e da cui partono vie di altri tenore, come la via Lorenzo di Credi, che dopo qualche metro cambia nome in via Domenichino, che di questa zona molto benestante è la avenue.
Io però non la imbocco e prendo invece quello che sembrerebbe un largo viale alberato e invece è un piazzale: piazzale Crivellone, mai sentito nominare. Ma di cose mai viste e mai sentite è piena Milano. Anche qui siamo nel cuore di qualcosa che non si può fotografare, sia per la quantità di alberi, sia per la difficoltà che si ha ad inquadrare qualcosa che possa riassumere in sé il senso di ciò che, guardandoci in giro, noi vediamo.
E' la Milano che si sottrae, che fugge l'obiettivo, la Milano così gelosa dei propri interni da trasformare in interno - e quindi ricettacolo di memorie, di segreti, magari anche di vergogne - perfino quella porzione di esterno che dà sulla pubblica via, che qui pubblica è un po' meno: tanto che i rari passanti si girano a guardarmi mentre scatto fotografie, e non approvano. E' come essere entrati in una casa, eppure sono per strada.
Da piazzale Crivellone cominciano due vie molto belle. Una è via Pelizza da Volpedo, dove un'architettura fatta di case piccole e all'origine popolari è stata trasformata in un indirizzo sommamente appetibile e - non fatico a immaginare - proibitivo quasi per qualunque tasca.
Questa strada mi appare tra le poche capaci di unire classe e semplicità. E non devo essere il solo a pensarlo, visto che la sua gemella parallela (via Eugenio Gignous), pochi metri oltre, è stata chiusa da un cancello.
Ma qui siamo già in un'altra via, intitolata a un pittore che io amo decisamente meno del povero Pelizza: Paris Bordone. Se il pittore non mi piace, viceversa mi piace questa via curvilinea, percorsa da un lato dal muro di un edificio che si sottrae perfino agli occhi, e dall'altro da alcune bellissime case.
E' strana questa fetta di Milano, con la sua alternanza di esibizione e nascondimento. Nelle stesse vie trovi la volontà di dare nell'occhio e quella di sottrarsi alla vista. E quel che è strano è che queste due tendenze emergono all'interno di quello che sembrerebbe un gruppo sociale molto compatto, quello della ricca borghesia di un secolo fa. Niente sociologia, dunque, perché le due tendenze non confliggono. Esse appaiono, piuttosto, come i due lati, inconciliabili ma anche non eliminabili, di uno spirito inquieto che attraversa Milano in tutte le sue espressioni: quella ricca e quella popolare, quella antica e quella moderna, e anche quella postmoderna.
Consiglio vivamente a chi fa nuovi progetti per la città di camminare e camminare per i quartieri che ho attraversato io, senza fretta, più e più volte: fino a lasciarsi penetrare dal racconto che, proprio qui, Milano ci fa, presentandoci il suo passato e le sue idee sul futuro.
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