Alle Gallerie d'Italia l'artista si scopre «Homo technologicus»

Una mostra mette a confronto opere della collezione con quelle del Castello di Rivoli

Alle Gallerie d'Italia l'artista si scopre  «Homo technologicus»

Dopo la mostra-capolavoro sul Romanticismo, continua il viaggio delle Gallerie d'Italia nella storia dell'arte antica e recente, attraverso esposizioni che mettono a confronto la ricca collezione di Intesa Sanpaolo e fondazione Cariplo con prestiti e collaborazioni importanti. Il fil rouge, fino ad oggi è stata la qualità e l'alta scientificità dei progetti affidati a curatori d'esperienza. La mostra Dall'argilla all'algoritmo, arte e tecnologia, inauguratasi ieri a piazza Scala, apre un nuovo filone rispetto a quello sviluppato con successo, di carattere quasi sempre cronologico e quindi in linea con le collezioni permanenti su Ottocento e Novecento; basti pensare a esposizioni come L'ultimo Caravaggio, La Grande Guerra, quella su Hayez o sui Vedutisti veneziani. Stavolta è stato scelto un tema, certamente non facile, quale il rapporto tra arte e tecnologia; un felice pretesto, ma pur sempre un pretesto, per movimentare una collezione che - tra i musei di Milano, Napoli e Vicenza - conta oltre 30mila opere. Ma non solo. La regìa di questa mostra arriva dal Castello di Rivoli, prestigiosa istituzione piemontese che vanta un'importante raccolta di opere del Dopoguerra, in particolare dell'Arte Povera che a Torino ebbe la sua stagione più fulgida. Un nucleo di questa collezione (implementata negli anni anche grazie al prezioso contributo della Compagnia di San Paolo) è stata messa in dialogo con le opere di Intesa Sanpaolo con un percorso pensato dalla direttrice di Rivoli Carolyn Christov-Bakargiev e la capo curatrice del Castello Marcella Beccaria. Il tema scelto è più ampio delle apparenze, poichè tra le 71 opere in mostra non figura soltanto l'arte «nell'epoca della sua riproducibilità tecnica», quella descritta dal filosofo Walter Benjamin che in età contemporanea ha abbattuto definitivamente il confine tra originale e copia. In mostra figurano opere di ogni epoca e linguaggio ove sia presente, nell'esecuzione o nel soggetto, un riferimento alla tecnica ovvero alla technè, che in greco antico indicava abilità e destrezza per poi allargarsi al concetto di «invenzione umana». Quasi a sottolineare, nell'anno di Leonardo, che un bravo artista dev'essere anzitutto un bravo artigiano poichè, come diceva Emile Zola, «l'artista è nulla senza il talento, ma il talento è nulla senza il lavoro». Il percorso della mostra milanese è una sorta di caleidoscopio che ha inizio con la ceramica greca (Hydra attica a figure rosse) quale primo esempio storico di riproduzione tecnica, per allargarsi a quadri come il cinquecentesco Autoritratto come orologiaio di Agostino Carracci, La costruzione del tempio di Gerusalemme da parte del re Salomone di Francesco Mura (1696), le Officine a Porta Romana di Umberto Boccioni fino ai Manichini di Giorgio De Chirico, triste e inquietante metafora dell'homo technologicus. Più evidente il concetto di tecnologia negli esempi di arte cinetica e programmata (Gianni Colombo, Enzo Mari) che ponevano l'azione meccanica al centro della genesi stessa dell'opera.

I Fibonacci al neon di Mario Merz e la Struttura ghiacciante di Pierpaolo Calzolari evidenziano il polimorfismo tra natura e artificio dei Poveristi, mentre la rivoluzione digitale e ancor più la realtà aumentata son lì a rappresentare i supporti contemporanei a cui siamo più abituati; sono quelli che hanno reso sempre più evanescente il ricordo dell'«aura», che era la quintessenza magica di un'opera d'arte.

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