«Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell'inconscio) è di rifiutare la morte». Le meditazioni del cardinale Carlo Maria Martini sul passo dell'uomo al di là del muro d'ombra, che separa questa da un'altra vita, sono molte. Frammenti dei suoi scritti scorrono in rete per rinverdire il tema più reietto della nostra civiltà, e addolciscono il volto dello spettro più temuto dalla creatura, rendendolo luminoso, questo volto che si mostra come un teschio da combattere in una lotta alla fine impari. Apparentemente.
«Vivere è convivere con l'idea che tutto prima o poi finirà. La morte è come una sentinella che fa da guardia al mistero. E' la roccia che ci impedisce d'affondare nella superficialità. E' un segnale che ci costringe a cercare una meta per cui valga la pena vivere».
Le citazioni sono tratte dalla lettera pastorale «Ritornare al Padre» del 1998/1999, che prende avvio dalla parabola del vangelo di Luca, il figliol prodigo. La vita è un cammino nel solco della malinconia di un ritorno ad un corpo amorevole, quello da cui siamo stati concepiti, è la prova che ci porta ad abbandonarci non alla speranza terrena d'essere salvati da una macchina, ma d'essere accolti nell'abbraccio tenero di quel corpo di Padre-Madre. C'è un quadro di Rembrandt all'Ermitage di San Pietroburgo. Si racconta che abbia spinto a conversioni. Il figliol prodigo affonda il volto scheletrico nel ventre del Padre che lo abbraccia. La mano sinistra del Padre è di possente fattura maschile, la destra, di delicata forma femminile, emerge da un lembo del mantello con l'interno azzurro. E' questa la rappresentazione della morte? Rileggendo la Lettera Pastorale del cardinal Martini la risposta è «sì».
«Quando la prospettiva della morte ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge un presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati. La sua figura ha al tempo stesso tratti paterni e materni. E' pertanto evocazione dell'origine, del grembo, della patria, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore». Chiudere gli occhi nell'«eterno riposo» significa riaprirli nella limpidezza della Sorgente che ci ha generati, fatta anche delle lacrime della vita mortale che non vanno perdute.
«Ostentare ricchezza, potere, sicurezza, salute, attivismo sono espedienti per esorcizzare l'angoscia del tempo che ci sfugge dalle mani» diceva Martini in un altro contesto, rammentandoci come la visione quotidiana del bianco e del nero debba essere rovesciata. Ciò che vediamo bianco - salute, successo, denaro - in realtà è il riflesso del timore di ciò che crediamo nero - la morte - che invece è come per San Francesco «la sorella» che ci prende per mano per riportarci nell'amore da cui partimmo. «Sentiamo quasi una certa invidia e una profonda nostalgia per la libertà di spirito, la scioltezza spirituale e la gioia di Francesco d'Assisi di fronte alla morte» diceva Martini il 3 ottobre 1995, vigilia della festa del Santo Patrono d'Italia.
Invidia: pulsione che si rivolge ai detentori di beni materiali, mentre in questo caso è diretta verso chi ha raggiunto la bellezza di una libertà da tutto ciò che può significare mondo. «Il motivo del «ritorno» soggiace alla parola ebraica shuv che esprime il cambiamento del cuore e della vita» scrive ancora Martini.
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