Milano, capitale della moda, città «avanti», fattiva e concreta. L’ho sempre pensato, io cittadina di provincia con il sogno della metropoli. Ma devo ammettere che le cose sono davvero cambiate e che anche sulla gran Milan tira una brutta aria. Da giornalista, ho 44 anni, una laurea in lettere moderne e lavoro come redattrice nella cronaca del Tirreno a Carrara, ecco la cronaca delle mie due giornate nella capitale lombarda. Cominciamo dal viaggio in treno, in prima classe accanto a mia sorella. Arrivati alla stazione centrale un signore, con chiaro accento milanese si gira verso di noi e comincia a urlare: «La finite di parlare, non pensate che qui c’è gente che deve studiare ». Proviamo a ribattere che stavamo parlando a voce bassa e che comunque c’era tutto il treno vuoto: «Ma voi pensate che la gente voglia ascoltare le vostre litanie in brasiliano e portoghese?». Ribadisco, io e mia sorella siamo entrambe laureate lei, Isotta, in filosofia, e non sappiamo una parola di portoghese. Ma è solo l’inizio. Con un taxi ci facciamo portare all’hotel, tre stelle accanto alla Scala, con infissi in alluminio degni della peggiore periferia: tariffa 220 euro a notte.
Il signore alla reception, senza sollevare lo sguardo: «La prenotazione non è andata a buon fine per indisponibilità della carta». Mia sorella: «Ma qui io ho la conferma di Venere.com, loro mi hanno detto di usare una carta che ho di riserva giusto per garanzia ». Intervengo io: «Senta fuori sta diluviando può prendere la mia carta e darci la camera?».
«No, lo so tra un’ora e mezzo, se volete andare a fare due passi... ». A quel punto telefono all’agenzia di prenotazioni on-line e faccio sentire il mio disappunto, la minaccia di denunciare tutta la faccenda, visto che abbiamo l’sms di conferma.In cinque minuti la camera è disponibile. Già molto innervosite andiamo a fare un giro in centro, prima di un appuntamento medico che aveva mia sorella. E, verso l’una e mezzo a mangiare un’insalata in un famoso bar del centro. Qui, siamo nel pieno di una lite fra camerieri, con tanto di borbottii e clima non certo distensivo: il contro è di 54 euro, non ci siamo certo rilassate. E si continua.
Nel tardo pomeriggio ripercorriamo via Montenapoleone, dirette all’albergo, davanti a Damiani due signori distinti in trench e cappello, si urtano per il passo. Ne nasce una rissa da Far west: uno dei due inforca pure una chiave e cerca di colpire al volto l’altro. Nessuno fa nulla. Non si vede neppure un vigile urbano. La giornata non è andata bene. La sera decidiamo di concederci una cena in via Vittor Pisani. Siamo in due e ci piazzano in mezzo a due tavoli di turisti russi, rumorosi e chiassosi. Ma che stanno consumando tanto. Ordiniamo un risotto agli asparagi e una frittura: poi io un gelato al pistacchio. Non sono a metà che sul tavolo mi viene presentato il conto. Chiedo il caffè e, per noi, forse perché abbiamo preso un solo piatto (le assicuro, non siamo due mangione), nessuno dei biscottini arrivati in tutti gli altri tavoli. Il conto è di 127 euro tanto per essere trasparenti. Faccio notare la cosa al direttore di sala, al fatto che mai in vita mia mi era arrivato il conto a metà cena: per tutta risposta ci porta i biscottini che rimandiamo indietro.
Ciliegina sulla torta: sul taxi paghiamo gli 8 euro della corsa con una banconota da 50 euro. «Non ho il resto».
Siamo a fine serata, ci pare strano ma riusciamo a farcela, con sforzo, con gli spiccioli avuti peraltro di resto in alcuni negozi. E la risposta è: «Avete rubato in chiesa?» Questa la fredda cronaca. Ogni commento è superfluo.Lettera firmata
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