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In mostra lo «sciamano»: trasformò l'arte in magia

Alla Fondazione Carriero apre la retrospettiva su Pino Pascali, spirito controcorrente del '900

Francesca Amè

Come si fa a non amare Pino Pascali, spirito scanzonato e controcorrente del mondo dell'arte? Uno che in meno di dieci anni «brucia», veloce, la sua carica creativa, sbeffeggiando i concettualismi dell'arte povera, prima di quella rovinosa corsa in moto che lo uccise, l'11 settembre 1968, a Roma? Non ce ne sono molti di spiriti così intelligentemente ribelli nella storia dell'arte italiana del secondo Novecento, e Pascali sciamano, la mostra che apre venerdì alla Fondazione Carriero (fino al 24 giugno, in via Cino del Duca 4), è un omaggio doveroso e non banale al suo talento.

Si concentra, così ha voluto il curatore Francesco Stocchi, sui lavori realizzati tra il '66 e il '68 ed è un percorso che ci porta nell'universo magico di Pascali. Entriamo negli spazi della Fondazione - una gemma appena dietro San Babila - e subito ci imbattiamo nella «Pelle conciata», esposta alla Biennale di Venezia del '68, quando Pascali, dopo anni di difficoltà finalmente veniva apprezzato da pubblico e critica. La forma è quella del trofeo di caccia, ma i materiali (sintetici) e i colori (il nero-bluetto) ci introducono nel mondo della favola. Che «sciamano» Pino Pascali: prende forme e oggetti della natura e dà loro vita nuova. Fa qualcosa di molto simile - ed è questa la tesi di Stocchi, studioso anche di antropologia - all'arte tribale africana.

Le sale della Fondazione Carriero sono occupate da manufatti provenienti dal Continente Nero: il gruppo scultoreo dei Pali Konso, un'insieme di statue recuperate in Etiopia durante una spedizione degli anni Trenta e prestate dal Museo etnografico preistorico «Luigi Pigorini» di Roma, è allestito su un manto di sabbia per ricreare quella funzione apotropaica che aveva nei villaggi africani. Pascali lo conosceva? No, e non era nemmeno mai stato in Africa. Ciò che importa è che il suo «alfabeto delle forme» mutua dallo stile africano la sintesi, l'interesse per il mondo animale e per le forze della natura, quel rapporto, così naturale e intenso, con gli oggetti d'arte che devono essere indossati, toccati e usati per prender vita. Come accade per le maschere africane (alla Fondazione Carriero ne sono esposte alcune, tra cui una a forma di elefante, provenienti da collezioni private) così anche le sculture di Pino Pascali, figlie di una furia istintuale opposta al concettualismo in voga a quel tempo, sono quasi oggetti teatrali.

Le opere, e lo dimostrano le foto esposte e rari disegni per bozzetti di opere mai realizzate, diventano parte di scene teatrali di cui lo stesso artista è protagonista. Prendiamo i mitici «Bachi da setola», esposti accanto al «Bozzolo», ragnatela in plastica ricostruita per l'occasione, nell'elegante piano nobile della fondazione: paiono bruchi colorati e sono invece semplici scopini di plastica. Pascali li prendeva, se li portava in giardino, si metteva in posa davanti ai suoi «animaletti». La sua arte è deliziosamente giocosa: «Contropelo», prestato con altri tre pezzi dalla Galleria nazionale di Roma, occupa una sala del secondo piano e, insieme alle celebri liane e alle ceste, la trasforma in un set di un film d'avventura esotica. Si corre sempre il rischio di modificare le sculture di Pascali - una sala raccoglie le splendide «Finte sculture», lavori realizzati in realtà su tela e pittura e dalle forme stilizzate di cigno, bambù, rinoceronte, dinosauro - in opere da contemplare.

L'artista non l'avrebbe voluto: con quel suo guizzo infantile e puro, attento a cogliere l'essenza stessa delle cose, credeva in un'arte immersiva, capace di portarci tutti in un mondo diverso e assai più divertente di quello reale. Alla Fondazione Carriero lo sciamano Pascali ha compiuto ancora una volta la sua magia.

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