Cronaca locale

«Noi calciatori siamo i cocchi degli chef Ma non seguo le mode»

Il campione del mondo 1982 si racconta: «Milano è diventata la capitale del pesce»

Andrea Radic

Ha fatto sognare tifosi e innamorare tifose, ha entusiasmato compagni e allenatori con la sua carica umana e atletica e allenato la nazionale femminile. Oggi tiene corsi di motivazione nelle grandi aziende «perché le esperienze che vivi nel mondo del calcio sono le stesse della vita e per arrivare al successo servono le medesime motivazioni». Antonio Cabrini si racconta in auto mentre viaggia da Milano, dove vive da diversi anni, verso uno di queste giornate di team building che organizza con la sua società.

Milano è la nuova capitale del food?

«Non solo del food, Milano ha sicuramente avuto una grande iniezione di energia, un miglioramento che si percepisce sotto molti aspetti. Dopo Expo, si è rifatta il vestito. Abbiamo un sindaco che, senza dubbio, ha visto la potenzialità della città ed è stato molto bravo a farla crescere. Una città che vive di energia rispetto a molte altre grandi città grandi italiane».

Oggi commentatore televisivo.

«Ho sempre bazzicato il mondo della televisione e sono a mio agio, anche se il mio impegno principale è sempre nel mondo dello sport. Inoltre da tre anni ho una società che organizza eventi motivazionali per le aziende. Prendo spunto dal mio libro scritto prima dei mondiali del Brasile, sono idee per affrontare la vita quotidiana e trovare le motivazioni necessarie per riuscire».

Quanto parla da campione e quanto da motivatore?

«Direi che usufruisco della mia esperienza di quando ero calciatore e poi allenatore e la trasporto nel mondo aziendale e del lavoro. Sono tutti sempre molto attenti».

Cosa è cambiato nel mondo del calcio?

«È cambiato tutto in maniera radicale. Oggi le squadre sono aziende con grandi fatturati di cui bisogna tener conto. Una volta c'erano dei presidenti che erano papà della squadra, mettevano i loro soldi e non badavano ai costi. Era un modo per sentirsi protagonisti. Anche il calcio giocato è cambiato moltissimo».

Cosa vorrebbe rivedere e cosa è cambiato in meglio?

«Vorrei rivedere giocatori di alto livello in nazionale, sono un po' spariti i giovani eclettici e di alto livello tecnico, un aspetto che è stato lasciato da parte, dimenticato. L'aspetto positivo di oggi è la serietà del livello della gestione aziendale che consente un inquadramento più strutturato».

Qual è la sua Milano gastronomica?

«Vado dove si mangia bene e ci torno volentieri, non seguo le mode. Il pesce alla Langosteria di via Savona, poi due o tre giapponesi di altissimo livello. Milano è il primo mercato del pesce come sappiamo e i ristoranti lo restituiscono al meglio come L'angolo di casa. Vado spesso anche da un cinese fantastico in via Nino Bixio, il Dim Sum. Non cerco i grandi chef a tutti i costi, anche se sono stato molto bene da Davide Oldani»

Il profumo della sua infanzia?

«Quello della campagna cremonese, a Castelverde. Quando vivi in un'azienda agricola, ogni stagione ha il suo profumo: la cascina, la mietitura del granoturco, la stalla. Cose che dopo anni riconosci ancora dentro di te. E quando torno a Cremona dai miei, anche oggi riassaporo ciò che sentivo da piccolo».

Il piatto dell'infanzia?

«In casa cucinava mia mamma, tutto molto padano, dai risotti alla pasta, i salumi delle nostre parti, il bollito. Questi erano i piatti sulla tavola».

Un pranzo o una cena che non dimenticherà mai?

«Alla Juventus, una volta alla settimana a cena con un gruppo di compagni di squadra e le fidanzate. Molto bello e coinvolgente. Eravamo quattordici persone, un gruppo numeroso e affiatato. Con me c'erano Tardelli, Briaschi, Prandelli, Fanna e Vignola».

Bei ricordi.

«Il proprietario del ristorante in collina, simpaticissimo, era il primo a far casino, arrivava con un piatto, lo annusava, diceva fa schifo e lo lanciava in terra. Noi come lui e finiva sempre in caciara...».

Calciatori, gioia dei ristoratori.

«Sempre molto coccolati, come Da Mauro a Torino, lo storico ristorante della Juventus. Ci andavamo molto spesso, tanto che facevamo ormai parte dell'arredamento. Era come stare a casa».

Cabrini e il vino?

«Non sono un bevitore, ma mi piace molto scovare cantine particolari, vini che ti danno un'emozione in più, che danno soddisfazione, non per forza costosi».

L'avvocato Agnelli e la tavola?

«Rarissimamente pranzava con la squadra, Giampiero Boniperti invece era spesso con noi, quando giocavamo in casa veniva a cena in ritiro il sabato sera, un appuntamento costante, un rapporto stretto. Essendo stato giocatore anche lui, conosceva bene le dinamiche».

È goloso?

«Non rinuncio al risotto e a casa non manca mai una pasta meravigliosa, la Verrini trafilata in oro, non in bronzo. Resta ruvida in maniera perfetta e costa forse un euro in più. Ma fa la differenza».

E poi?

«Poi ho sempre amato i dolci, con i quali vado a periodi. Gelato d'estate, crostate da fine settembre ad aprile. Una psicologia tutta mia che devo ancora capire».

L'alimentazione sana quanto è importante per stare bene?

«La dieta mediterranea è la scelta migliore e oggi ci si nutre in modo molto più sano di un tempo. Invece faccio molta fatica a capire i vegani e il loro tofu».

Meglio un cinghiale?

«Meglio una bella costata argentina».

A casa chi cucina?

«La mia compagna Marta che in cucina è poliglotta. Ma non mi fa il risotto e lì entro in campo io con il Bimby, una delle più grandi scoperte della storia».

Il suo luogo del cuore?

«Sono a mio agio tra le cose antiche. Per me una fiera di auto d'epoca è come una giostra per un bambino».

La cena romantica è un'arma vincente?

«Assolutamente sì, perché il cibo, sopratutto al primo incontro, è argomento di conversazione. Aiuta a rompere il ghiaccio e a superare gli imbarazzi».

E con Marta la scintilla è scattata a tavola?

«Tutto è successo davanti a un panino, in un bar di Bergamo. Ero lì per commentare in tivù la partita dell'Atalanta.

Un incontro casuale, da cui è nato tutto».

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