Quando eravamo contadini tra vino cattivo e frati esosi

Quando eravamo contadini tra vino cattivo e frati esosi

Un giorno di novembre del 1721 Giuseppe Besozzi, contadino, raccontò cosi agli inviati dell'imperatore Carlo la sua dura vita sui campi della Curia milanese: «Il mio mestiere quando ero sano di questa mano, dalla quale sono mancante, lavoravo di scarpe, ma adesso non potendo travagliare faccio bottega di commestibili in una casa che è di ragione della Mensa Arcivescovile». Oltre alla casa, per cui pagava cinquanta lire, aveva delle terre da coltivare: «La pertica seminata a frumento darà tre stara di cavata; la segale dà meno, quando per altro dovrebbe dare d'avvantaggio, ma tutti gli anni viene sminuito il raccolto da certi animali che nel nostro parlare usuale addimandiamo burgolotti (bruchi) li quali nel fiorire li succiano l'humore e la fanno diventar secca».
Un piccolo, affascinante viaggio nella Milano contadina riemerge da quella miniera di storia e di storie che è l'Archivio di Stato di Milano. Sono alcuni degli atti del grande censimento che nel 1718 l'imperatore Carlo VI d'Asburgo ordinò di realizzare nel territorio dello stato di Milano, per fotografare non i numeri della popolazione, ma quell'universo di rapporti che regolava la vita economica di un territorio ancora in larga parte legato alla agricoltura, dove la proprietà terriera era concentrata in poche mani nobili e soprattutto ecclesiastiche. E dove le condizioni contrattuali imposte non sempre erano particolarmente umanitarie. Il lavoro fu ultimato sotto la figlia di Carlo, Maria Teresa d'Austria: e ne prese il nome di catasto teresiano.
Tutto ora giace lì, negli sconfinati depositi dell'Archivio di via Senato. E li è andato a risvegliarlo Giovanni Liva, traendone una mostra («D'appendizi pago», è il titolo) forse troppo piccola e certo troppo breve, perché verrà smontata a fine ottobre. Come si fa a non restare incantati anche solo dal catalogo nominativo delle osterie aperte a Milano in quei decenni iniziali del secolo dei Lumi? «Osteria del Pesce, Osteria dei tre Re, Osteria delle tre Lepre», o la misteriosa «Osteria al segno di San Lorenzo soprannominata dei sei Ladri»; e via così: fino alla «Osteria delle tre madri Veteri, per la quale Bernardo Alemani è tenuto a pagare anche una brenta di vino bianco, poco più poco meno, per la celebrazione delle messe nella loro chiesa». Da cui si evince che anche i locali delle osterie, al pari dei terreni agricoli, erano sovente di proprietà dei preti e dei frati.
Per fittare «una possessione di 573 pertiche» a Porta Ticinese, Andrea Villa spiega agli ispettori imperiali di dover pagare al monastero di Santa Maria Annunciata alla Vettabbia 3.141 lire, con l'aggiunta di contributi in natura, detti «appendizi»: «Un animale di libbre 120, capponi paia venti, oche grasse numero quattro, anitre numero quattro, fascine due centinara e due brente di vino crodello». Di fronte alla esosità del clero, c'è chi lamenta di non farcela più: come Bartolomeo Stabilino, che per mille e passa pertiche deve pagare alla congregazione della Signora di Loreto, in San Fedele, oltre a diciotto forme di formaggio stracchino e duecento pali da costruzione, anche seimila lire: «Ma è qualche tempo che non c'è modo di poterle pagare».
Le carte riemerse dall'archivio raccontano una città di povertà estreme: dove nei campi insieme al vino Crovello - oggi considerato quasi vino di lusso - si producevano, ed evidentemente si bevevano, vinacci infami come il Caspi, detto anche vino del torchio, frutto della spremitura delle vinacce, e ancora peggio il Posca, che era semplicemente acqua passata per le vinacce.


La decisione dell'imperatore di andare a scavare nei rapporti tra fittavoli e proprietari, a questi ultimi non doveva essere andata molto giù, e c'erano stati condizionamenti nei confronti dei testimoni: tanto che quando il commissario imperiale Giovanni Battista Benigni del Conte va a interrogare i contadini di Villapizzone, alla pieve di Trenno, fa loro giurare «con le mani poste sulle Sacre Scritture, di dire con chiarezza la verità, di non avere subito alcuna coartazione, di essere in piena libertà di spirito e di mente».

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