Rinascono alla Bicocca gli Ambienti spaziali perduti

Ricostruite all'Hangar nove «stanze» realizzate dal maestro per i musei di tutto il mondo dagli anni '40

Mimmo di Marzio

I grandi artisti della storia possono essere una rivelazione continua se, anzichè essere proposti con mostre pop e preconfezionate, sono oggetto di ricerca e di approfondimento. Così capita che anche un autore blasonato come Lucio Fontana - legato a doppio filo alla Milano culturale del Dopoguerra e le cui opere sono oggi ai vertici del mercato - possa rivivere all'improvviso con tutta la freschezza di un contemporaneo, impressionando ancora una volta il pubblico per la sua straordinaria capacità di anticipare i tempi. Merito di un team di curatori capeggiati dall'ex direttore del Museo del '900, Marina Pugliese, a cui l'aria americana ha risvegliato l'idea di mettere a frutto l'oggetto della propria tesi ai tempi del Dottorato di ricerca: ricomporre gli Ambienti spaziali - che oggi definiremmo environment o installazioni ambientali - che il maestro argentino progettò e realizzò alla fine degli anni '40 per musei e gallerie internazionali. A rivederle oggi nello scenario post-industriale dell'Hangar Bicocca, quelle stanze di luce-buio e colore che spiazzano la percezione sembrano opere di artisti di oggi. Come il tedesco Carsten Hoeller, che proprio in questi capannoni ha lo scorso anno allestito un percorso di installazioni sensoriali che ha forti connessioni con le stanze di Fontana ricreate ala Bicocca. Una ricostruzione imprescindibile, quella messa a punto dalla Pugliese in collaborazione con Barbara Ferriani, Vicente Todolì e la Fondazione Lucio Fontana, dal momento che i 18 progetti espositivi realizzati dal maestro per gallerie e musei avevano la prescrizione di essere distrutti a fine mostra. Proprio come l'arabesco di luce realizzato nel 1951 per la IX Triennale, di cui campeggia una replica sul grande soffitto della Sala Fontana all'Arengario. All'Hangar, i curatori hanno prodotto un lavoro scientifico iniziato negli archivi della Fondazione e in quelli dei musei che ospitarono gli «Ambienti» 70 anni fa, ricreando con dovizia di dettagli nove stanze, allestite con le stesse proporzioni, gli stessi oggetti e gli stessi materiali usati dall'artista. A farla da padrone sono la luce fluorescente, il colore e l'interazione spettatore-opera, con effetti suggestivi e a volte scenografici: come nel progetto «Fonti di energia, soffitto di neon per Italia '61», realizzato per il Padiglione Energie di Torino in occasione del Centenario dell'Unità d'Italia. O come nell'Ambiente spaziale realizzato nel '66 per il Walker Art Center di Minneapolis, che invita lo spettatore a camminare in un oscuro tunnel ribassato per poi accedere sul pavimento di gomma morbida di una stanza traforata di punti luminosi. Ma a colpire sono forse i progetti più vecchi, quelli lontani anni luce anche dal concettualismo degli anni '60. È del 1948 l'Ambiente Spaziale a luce nera realizzato per la Galleria del Naviglio, una stanza illuminata dalla luce di wood, con una scultura astratta sospesa e dipinta con colori fluorescenti. Era di solo due anni prima il Manifesto Blanco con cui Fontana enunciava per la prima volta la teoria spazialista.

Entrare oggi per la prima volta in quelle stanze emoziona e rende più palpabile di mille «tagli» le convinzioni del maestro sulla nascita di una nuova estetica che «svincoli l'arte dalla materia e svincoli il senso dell'eterno dalla preoccupazione dell'immortale».

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