Cronaca locale

Tedeschi il "testimone". Una vita da attore nato

Alla vigilia dei 100 anni la figlia Enrica dedica una biografia a un protagonista del dopoguerra

Tedeschi il "testimone".  Una vita da attore nato

Enrica Tedeschi è stata docente di sociologia presso l'Università di Roma, ma è anche la figlia maggiore di Gianrico Tedeschi a cui ha voluto dedicare un libro particolare, pubblicato da Viella: Semplice, buttato via, moderno. Il «Teatro per la vita» di Gianrico Tedeschi. All'autrice non interessava una biografia d'attore, bensì qualcosa di diverso che potesse mettere a confronto l'indagine sociologica, quella che si suole praticare sul campo, utilizzando un approccio dialogante con l'oggetto della ricerca, adeguando, nel contempo, questo metodo, alle esigenze della storiografia teatrale. Ne è venuto fuori un libro sui-generis, dove il protagonista viene «indagato» nel suo rapporto con la storia, quella umana, quella sociale e quella politica e, nello stesso tempo, nel suo rapporto col teatro. Non per nulla, Enrica ha diviso il suo campo di ricerca in due parti, cercando una conciliazione tra Gianrico come «testimone della storia», oltre che «interprete della modernità». Cerchiamo, allora, di spiegare il titolo, dovuto all'idea che Gianrico ha sempre avuto della recitazione: «Bisogna recitare semplice, buttato via, moderno», ovvero senza utilizzare lo stile roboante del passato che vuole anche dire: non essere mai banali sul palcoscenico, evitare la superficialità e avere la capacità di «incarnare» il testo in una sorta di «incorporazione quasi spiritica». Così, alla domanda di Enrica se esista una regola nello scegliere un testo, Gianrico risponde: «Voglio essere stupito». È come se lo stupore e il meraviglioso si appropriassero della sua fantasia interpretativa e diventassero azione scenica.

Gianrico è stato sempre un sognatore, anche nei momenti più drammatici della sua esistenza, quella delle difficoltà economiche familiari, nella piccola casa di via San Gregorio (tristemente nota per l'atroce delitto di Rina Fort che sconvolse Milano nel 1946) dove, in due camere, vivevano i genitori e tre figli maschi, con stanze di ringhiera, senza bagno e senza acqua. Si studiava, tutti insieme, sul tavolo da cucina. Gianrico trovava sempre il modo di concentrarsi, tanto da prendere il diploma magistrale, iniziando la carriera di maestro che abbandonerà presto per diventare maestro di teatro. Le difficoltà della guerra, con l'interruzione degli studi alla Cattolica, dove conobbe padre Gemelli, con cui dette degli esami, non gli fecero abbandonare gli studi che completerà con la tesi su «Esistenzialismo e teatro contemporaneo». E l'esperienza vissuta in campo di concentramento, dove iniziò la carriera di attore non ancora professionista, recitando l'Enrico IV di Pirandello. Tra il pubblico del lager, venuto ad applaudirlo, c'erano Enzo de Bernard, che diventerà suo cognato, Enzo Paci, Roberto Rebora, Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati e Giuseppe Novello. Rebora gli disse: «Sei un attore nato, è questo che tu devi fare».

Con Paci aveva sostenuto un esame di filosofia, solo che la filosofia, diceva, non gli dava l'energia del teatro. Enrica si attarda sulla storia degli Imi, ovvero dei militari che si rifiutarono di collaborare col nazifascismo, non partecipando all'impresa di Salò. Come scrive Luciano Zini, ordinario di Storia contemporanea, nella postfazione, gli internati subirono violenze, non solo sul corpo, ma anche nell'anima, ricordando che nel lager erano stati rinchiusi oltre 600mila soldati. Dei quali 50mila erano deceduti. Recitando l'Enrico IV, Gianrico aveva scoperto che il teatro era più forte della fame e della violenza.

Enrica si serve dei racconti del papà per tracciare una indagine sociologica di quel periodo, sottolineando il contesto inquietante in cui vivevano i deportati e scoprendo come, per Gianrico, il teatro fosse stato un vero rifugio. Il testo di Pirandello lo portò sempre dentro di sé tanto che, nel 1994, oltre che dirigerlo, lo interpretò, insieme a Marianella che aveva conosciuto nel 1968, mentre recitavano Le nuvole e che sposerà in seconde nozze. Per Gianrico Enrico IV era un antesignano degli internati come lui. Enrica ci parla, con affetto, della mamma, dei nonni, di Marianella, delle figlie, della sorella Sveva, diventata anch'essa attrice, come la figlia maggiore. E lo fa in forma di racconto, tanto da avvincere il lettore. Nella seconda parte, l'autrice affronta la carriera professionale del papà, dalla prima scrittura (1947), col Piccolo Teatro, con la regia di Strehler, all'ultima del 2016, con Dipartita finale con Branciaroli, Pagliai, Popolizio, Bottari, quasi settant'anni sul palcoscenico insieme ad altri grandi attori e registi. Ricorda i successi, come l'indimenticabile Peachum dell'Opera da tre soldi, il trionfo, per tre stagioni del Cardinale Lambertini. Enrica vuole, però, sapere dalla sua voce, cosa pensasse dei registi con cui ha lavorato, ottenendone delle risposte epigrammatiche, tipo «la creatività geniale» di Strehler, «il rigore e l'arte aristocratica» di Visconti, la «visionarietà» di Squarzina, «l'infinito talento» di Ronconi, la «maestria» di Costa, la «disciplina» di Eduardo che per lui aveva scritto Gli esami non finiscono mai, la «straordinaria inventiva» della Shammah e il suo «lavoro sugli attori», la «sterminata cultura teatrale» di Maccarinelli.

Un volume che contiene anche un'intervista a Franca Valeri, milanese come lui, la teatrografia, la filmografia, oltre che i lavori realizzati in televisione e alla radio.

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