Mille Miglia, cara «freccia rossa» addio Ora a indicare la strada c’è il navigatore

È già finita. Ed era appena incominciata. Bei tempi quelli della Mille Miglia, fotogrammi in bianco e nero, odore di cuoio e di pelle, di vernice, profumo di gomma e di donna. A essere nostalgici si finisce per essere un po’ pirloni, come si dice a Milano. Non è il caso. Brescia-Roma-Brescia, chilometri un tot, non meglio precisati al millimetro ma miglia mille, per restare nel fascino di questa corsa che è una fetta bella e grandiosa della storia del nostro Paese, non dico delle automobili (al maschile, gli automobili, come dicevano gli Agnelli) che poi sono diventate le macchine.
Queste, nei favolosi anni Cinquanta, in verità, erano le lavatrici, i frigoriferi, i frullatori e i tostapane, macchine di casa, elettrodomestici mentre l’automobile incomincia a stantuffare, a fare i conti con il progresso, d’accordo, ma abbandonando le vesti, i profili e le posture della belle époque. Dico questo perché come un osservatore dell’Onu, da sognatore anche famelico di automobili più «mobili» d’arredo che auto da trasporto e gara, Brescia e le tappe di questa edizione storica della «corsa più bella del mondo» (cfr. Enzo Ferrari), hanno offerto una passeggiata romantica, la solita, una canaglia di emozioni e di memorie.
Va da sé che non c’è stata gara, nel senso antico, niente fango, niente cambio dei pneumatici, niente fari spenti nella notte (una balla colossale quella di Nuvolari che superava Campari all’alba, c’era la luce che già disegnava le sagome, si fa in fretta a raccontar leggende, da un bar a un elettrauto!) ma c’è stata la passerella di belle gioie, la Cucinotta come madrina, un po’ Pinocchio («da bambina venivo a vedere la corsa, se avrò tempo cercherò di assistere a qualche tappa, sto girando un film», non sapendo che dal Cinquantasette la corsa non è più corsa e che la stessa dura due giorni, stop, traguardo, arrivo) e i soliti noti dell’Italia nostra, sindaci, vicesindaci, assessori, affini. Vorrei tralasciare l’aspetto organizzativo di vigilia ma non posso (nella splendida villa Mazzotti a Chiari, tutto l’impossibile è accaduto, con gli invitati da ogni dove, Giappone, Germania, Inghilterra, Francia, tenuti fuori per due ore mentre il cerimoniale procedeva ingessato; l’aggettivo agghiacciante mi sembra il più adatto), poi, per fortuna, è arrivata la polpa, la sfilata, Brescia calda e incuriosita dinanzi al presepe di automobili lucidate, riverniciate, con i numeri su cofani e portiere non tutti del tempo (quelli antichi segnavano l’orario di partenza), caschi, occhiali, guanti, il repertorio d’antan mentre attorno ronzavano motorini, ruggivano i Suv e fiatavano le limousine dei personaggi illustri.
La Freccia Rossa non serve più, al posto della segnaletica stradale su cartone, tutti con un navigatore satellitare a disposizione per indicare il percorso migliore, più veloce, si fa per dire, Bugatti (la Type 37 a di Guido e Pietro Foresti si è ribaltata venerdì mattina, dalle parti di Rimini, ferite lievi per i due, più serie per la leggendaria) o Alfa, Om o Ferrari che fossero, dotate di effetti speciali, come andare in bicicletta con l’alettone e il servomanubrio. La Freccia Rossa piena di amici e con uno sponsor particolare, i della Valle, Diego e Andrea (quest’ultimo presente ma con massima discrezione, anch’egli costretto a fare comica anticamera a Chiari) hanno messo a disposizione 700 giubbotti per gli equipaggi e 70 dedicati ai vincitori, Fay e Tod’s hanno firmato due giorni di questo diario antico che fa fatica a farsi leggere in un mondo troppo veloce, troppo distratto. Eppure Mercedes Benz, per dire, era presente, ribadendo la sua fede alla tradizione, con Bram Schot presidente e amministratore della casa tedesca in Italia, la SS del 1930 ha messo tenerezza e amore, la 720 SSK del ’29 idem come sopra, devo dire lo stesso per le Bmw 328 del ’37 e la Convertible del ’37, pensieri personali per la Mg J4 del ’33, mannaggia, roba da pazzi per la Balilla, la Bugatti, le Aston Martin pre James Bond natum, la 1100 Fiat, le Lancia e ovviamente le Ferrari a prescindere, un album di figurone, figurissime, passate lentamente davanti agli occhi di anziani, uomini e donne, con il cuore che si scaldava mentre i più giovani e i pupi pensavano di essere a Disneyland o nel set di un film con Al Capone e Humphrey Bogart. Era tutto vero, è tutto vero. La Mille Miglia tenta di resistere al logorio della vita moderna, non corre ma viaggia, non uccide come purtroppo maledettamente accadeva da sempre e accadde per l’ultima volta nel Cinquantasette con undici morti, cinque dei quali bambini, non consegna aneddoti come quelli narrati da Federico Fellini a Beppe Viola, «un mio amico voleva offrire a Nuvolari i tortellini che la propria madre aveva fatto in casa, ci provò più volte, si piazzò anche in curva, alla fine i carabinieri lo arrestarono o quella volta che a Rimini vinse Varzi perché il Federico aveva segnalato a Campari la strada sbagliata», tutti amarcord che servono a tenere in vita la storia, la leggenda. E quell’altra, nel Cinquantaquattro, quando il meccanico di Ascari legò una giarrettiera sotto il pedale dell’acceleratore e la Lancia andò a manetta verso la vittoria e Campari che correva per quattordici ore senza nemmeno fermarsi per la minzione, sbrigava la faccenda a bordo. E potrei dire ancora di altre mille storie, come le miglia.


Ma ormai è finita, la Cucinotta gira il suo film, sindaci, vicesindaci e assessori tornano alla vita ordinaria e le automobili rientrano nei garage, a casa. Quasi in silenzio, come signore eleganti, per non disturbare.

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