Minniti, i Ds e gli affari calabresi

La lettura di atti giudiziari non più coperti dal segreto, divenuti da poco pubblici e di cui tanti temono la divulgazione, offre uno spaccato inedito sulle relazioni pericolose fra imprenditori, esponenti dei Ds e cosche calabresi. Carte top secret, oggetto di nuovi accertamenti, si rifanno alle dettagliate informative dei carabinieri del Ros sulla scientifica spartizione degli appalti a Reggio Calabria. Fra i nomi dei diessini eccellenti finiti nelle relazioni rimaste per anni nei cassetti, spuntano il viceministro dell’Interno, Marco Minniti (mai indagato) l’ex sindaco di Reggio Calabria, Italo Falcomatà (deceduto), Demetrio Naccari Carlizzi (all'epoca vicesindaco) e altri noti esponenti provinciali e regionali. Si tratta di attività investigative capillari, abbandonate o disperse in procedimenti collegati, e che essendo state frazionate, col tempo sono state archiviate.
Il tribunale del Riesame, nel confermare il quadro probatorio sul clan Libri (dal nome del boss protagonista dell'affare Ce.Dir di cui si dirà fra poco) ha ritenuto «inspiegabile» l’archiviazione del procedimento originario dove emergevano i primi profili di collusione mafiosa-politico-imprenditoriale. Le vecchie indagini del reparto operativo speciale dell’Arma a sorpresa son così tornate d’attualità dopo il recente rinvio a giudizio per mafia di 19 persone, tra cui il boss ergastolano Domenico Libri, nel frattempo passato a miglior vita. Se l’ipotesi d’accusa è l’associazione mafiosa, l'oggetto dell'inchiesta riguarda la gestione dei rifiuti e la spartizione degli appalti nella provincia reggina, con particolare riferimento alla gara per il Ce.Dir, il centro direzionale di Reggio Calabria, a cui erano interessate due società «che sembrano rispondere - scrive il Ros - a due gruppi mafiosi contrapposti».
Con quella dell’imprenditore Pietro Siclari, poi vincitrice dell’appalto, si era associata una terza società (la Si.Mi Sas) i cui titolari erano la moglie del vice di Amato e il suocero, Lorenzo Sera. A Marco Minniti i carabinieri arrivano intercettando l’imprenditore Matteo Alampi, definito colletto bianco della ’ndrangheta, che prova a far suo l’appalto Ce.Dir sfruttando l’amicizia col boss Libri e i rapporti strettissimi con l’allora sindaco Falcomatà e l’assessore Giuseppe Gulli, entrambi pci-pds-ds, nonché con l’attuale senatore Fuda. A un suo interlocutore Alampi spiega di essere preoccupato dell’alleanza tra la Si.Mi del suocero di Minniti e la società di Siclari perché convinto che quest’ultimo rappresenti gli interessi del potente parlamentare e che quindi sia favorito. «Convinzione niente affatto ingiustificata - osserva il Ros - qualora si consideri che l’azienda del Sera Lorenzo, suocero di Minniti Marco, annovera tra i soci accomandatari anche la figlia Mariangela, moglie del deputato. Il parlamentare peraltro non era nuovo a “ingerenze” nel settore imprenditoriale del capoluogo calabrese, così come diffusamente documentato in altro referto redatto da questa Unità nell'ambito del procedimento penale numero 55/99 riguardante le opere pubbliche nel comparto reggino».
Per fronteggiare Siclari, e dunque Minniti, Matteo Alampi incontra frequentemente il sindaco Falcomatà «che già in passato - è scritto in un'informativa - si era interessato fattivamente per lui proprio per un’altra gara al Ce.Dir». L’ultimo faccia a faccia è del 6 novembre 2000. Uscito da casa Falcomatà, Alampi corre a Prato per incontrare il boss Libri al confino e definire gli accordi sul Ce.Dir. Seguendo Alampi, i carabinieri incappano in un politico la cui descrizione sembra corrispondere a Minniti. «La presenza di noti esponenti politici, solo recentemente privati di importanti responsabilità di governo ed essi stessi portatori di interessi personali e familiari, è di una gravità eccezionale».
Nel rapporto del Ros si fa presente come l’Alampi, intercettato in auto, a proposito di Minniti riveli da un lato alcune presunte intrusioni del deputato in occasione dell’aggiudicazione di gare d'appalto nella Piana di Gioia Tauro, e dall'altro si dichiari addirittura disposto ad atti di ritorsione contro l’uomo politico.

In un’altra intercettazione, l'imprenditore della ’ndrangheta «confidava i propri timori conseguenti alla presenza dell’ex sottosegretario a cui attribuiva l'indebito sfruttamento degli organismi investigativi per contrastarne le mire imprenditoriali» facendo passare la sua società come vicina alla criminalità organizzata. L’indagine stava portando lontano, ma si è arenata. Sarebbe interessante capire perché.
Gian Marco Chiocci
gianmarco.chiocci@ilgiornale

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