«Il mio errore più grande? Stare sempre in prima linea»

Dalle macerie dell’Aquila al divano di casa. Col televisore sintonizzato sullo tsunami giapponese, il cellulare che trilla impazzito, abbozziamo un’intervista complicatissima con l’uomo costretto a smettere l’uniforme della protezione civile per indossare l’abito dell’indagato a tempo pieno. In questo clima surreale, fra il domestico e l’apocalittico, dove tutti lo cercano pur essendo fuori dal giro, fa un certo effetto incontrare un Guido Bertolaso calmo e serafico, l’altra faccia dell’ipercinetico funzionario che mezzo mondo ci invidia e che un pezzo di magistratura considera invece un malfattore, un bieco puttaniere, sanguisuga di pubblici denari, socio onorario della «cricca». San Guido è reduce dall’ennesimo faccia a faccia coi pm di Perugia che l’hanno indagato per corruzione nell’inchiesta sui Grandi Appalti. Partiamo da qui.
Cosa le hanno chiesto i magistrati di Perugia?
«Assolutamente niente. È stato un monologo. Ho illustrato meglio che potevo una memoria che ho consegnato ai pm per sgombrare ipotesi, suggestioni, dicerie, falsità. Ho documentato tutto al centesimo con allegati, pezzi di carta, prove certe, fatti concreti, lettere, contratti per appalti della Maddalena controfirmati da funzionari competenti, ordinanze di protezione civile firmate da Prodi e Berlusconi: con quest’ultimo interrogatorio, sommato agli altre tre, ho parlato 15 ore. Ho sempre risposto a ogni contestazione».
Ora che l’inchiesta è agli sgoccioli, se l’è fatta un’idea perché proprio lei è finito in questo tritacarne?
«In un Paese dove pochi rischiano preferendo restare dietro la scrivania declinando responsabilità, ho commesso il gigantesco errore di caricarmi sulle spalle problemi importanti, difficili, complicati, di mia competenza. E di risolverli. In nove anni la mia struttura ha fatto miracoli, è diventata dinamica, efficiente, invidiata. Non è questione di farsi i complimenti da soli ma l’Aquila, e tante altre situazioni, sono la prova. A differenza del grande Zamberletti che venne fatto fuori per motivi politici, a me hanno riservato anche fango, perché rimuovermi non sarebbe bastato».
Qualche errore l’avrà pur commesso...
«Niente. Rifarei tutto, compreso il G8, i lavori della Maddalena».
Non crede di aver esagerato col potere? La disponibilità eccessiva di denari pubblici...
«Se avere potere significa lavorare nel fango, in mezzo ai morti e alle macerie, non dormire per settimane, allora sì, sono stato potentissimo. Cosa me ne è venuto? Oggi sono consigliere della Corte dei conti? Sono in qualche Cda? Sono ministro? Senatore? Ecco, sa che sono? Un pensionato».
Il pensionato Bertolaso non se ne starà mica con le mani in mano?
«Dovevo partire per la Sierra Leone con i medici missionari, purtroppo per queste incombenze giudiziarie ho dovuto rimandare.
Che idea si è fatta di quest’inchiesta?
«Mi ha molto amareggiato. La mia famiglia ne ha risentito tantissimo, ho subito attacchi personali indecenti, un massacro inimmaginabile, vile, vergognoso».
Entriamo nello specifico. I fatti «noti» che la riguardano. La casa di via Giulia che le avrebbe pagato l’architetto Zampolini, l’uomo di Anemone.
«Ho dimosrato per tabulas che le cose sono andate diversamente In via Giulia, e ci sono le prove, arrivai attraverso il cardinale Sepe che conoscevo dai tempi del Giubileo. Avevo un problema in famiglia, dovevo uscire da casa, mi rivolsi a un sacerdote per avere una struttura, come dire, protetta. Andai così in un collegio, purtroppo però la mia attività alla protezione civile prevedeva orari infernali e creavo problemi all’istituto. Così venni spostato in via Giulia attraverso un amico mio, Francesco Silvano, fedelissimo di Sepe. Tutto qua, del resto, di Anemone e Zampolini non so niente, e non capisco perché questo architetto Zampolini se ne esca a quel modo, salvo precisare successivamente cose sempre diverse, contraddittorie, incomprensibili. Gli inquirenti mi hanno fatto le pulci su quella casa, dove ho abitato quattro mesi (e che ho scoperto essere nota leggendo sui giornali della lista Anemone) e sui miei conti correnti, hanno cercato depositi all’estero. Non hanno trovato un euro».
L’accusano di essersi incassato 50mila in contanti euro da Anemone.
«(Risata) Allora. Le intercettazioni dei carabinieri dimostrano che quei soldi erano destinati a un’altra persona che Anemone doveva incontrare in un orario diverso dal mio. Eppoi le chiedo: io che ho avuto per le mani 30 miliardi di euro, mi vendo per 50mila euro? Ma dai! E poi avrei preso soldi proprio in un momento in cui avevo deciso un taglio ai budget per abbattere i costi che stavano lievitando? Non ho fatto favori a nessuno; non c’è una mia firma, una mia intercettazione, una raccomandazione, una persona che a verbale sostiene il contrario. E rischio il processo lo stesso».
Domanda d’obbligo. I massaggi hard al Salaria Sport Village?
«La massaggiatrice Francesca, persona per bene, ha testimoniato la verità. E incontrandola, casualmente, mesi dopo, mi ha detto: “dottore, peccato, che un carabiniere in borghese non è venuto da me per farsi fare un massaggio e qualcos’altro... Sa che schiaffo gli davo? A calci lo buttavo fuori”. Poi c’è quell’altra, Monica.

Ha avuto la colpa di aspettarmi la sera allo Sport Village perché avevo chiesto la cortesia, soffrendo di vari malanni, di un massaggio al termine di una giornata faticosissima. Non c’è stato sesso, ed è dimostrato anche lì. Eppure sui media è passato il messaggio opposto. Infamie, cattiverie. Una vergogna che grida vendetta. Questa è l’Italia, che nel mio piccolo volevo provare a cambiare».

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