Il mistero di Lumumba incastrato dalla sua barista

Tutte le contraddizioni nelle accuse al musicista che continua a negare. E la famiglia dell’ex premier zairese nega di conoscerlo

Il mistero di Lumumba incastrato dalla sua barista

Quando Diya Lumumba era appena un bambino e il Congo si chiamava ancora Zaire un analista scrisse che l’unica industria in crescita nel Paese era quella della birra. Aveva 18 anni quando decise di mettersi un fagotto in spalla e abbandonare quei suoi tramonti cangianti circondati da miseria e violenza, troppo spesso macchiati di sangue. Acquistò un biglietto di sola andata. Per l’Italia. Destinazione Perugia, la città cosmopolita, quella per studenti stranieri. Cercava fortuna il giovane Lumumba, chiedeva un futuro. Si iscrisse a Scienze politiche.
Ed eccolo 20 anni dopo, sono curiosi gli intrecci del destino: gli studi non li finì mai, si arrabattò come musicista, si trasformò in pierre del divertimento, alla fine divenne un «birraiolo». Fino a qualche giorno fa, ovvero prima delle manette, Diya, per tutti Patrick, era l’amabile, rispettabilissimo e innocuo gestore del «Le Chic», uno dei tanti pub per studenti più annoiati che impegnati. Da sei giorni è invece uno dei tre accusati di un delitto assurdo, quello di Meredith Kercher, 22 anni, la studentessa sgozzata - dicono psicologi e investigatori - «in un contesto ludico-sessuale». Riguardando le foto sbiadite, Patrick non è cambiato molto. Non ha forse più lo sguardo allegro e sognante di quando suonava o incideva il suo cd etnico finanziato dall’Università; dalla testa una volta rasata ora cascano riccioli un poco radi. «Ma per il resto, raccontano gli amici, è lo stesso. Con lui si può parlare di tutto: arte, storia, politica, musica». C’è una città, e non solo quella dei giovani che lo conosce. Per tutti - a partire da Augusto De Megni, il venticinquenne perugino vincitore del penultimo Grande Fratello, ma alle cronache assurto per essere stato vittima dell’Anonima sarda - di questo ragazzone africano non si può che parlar bene. «Tranquillo, pacioccone, mai un gesto violento», il coro monocorde. «Metteva a suonare assieme giapponesi, europei, neri e americani. Li trovava, li faceva incontrare, organizzava le serate, portava il pubblico», racconta un altro suo amico italiano.
L’acropoli perugina, oggi, non si trincera di fronte all’orrore. Solo e semplicemente sembra non credere alle conclusioni di questa inchiesta. Non del tutto. Diya Lumumba per la gente non ha i connotati di quel killer spietato che descrive l’accusa. Furbo, abbastanza smaliziato da disfarsi il giorno dopo del telefonino. Ma non della Sim. Per ora ad accusarlo ci sono solo le parole dell’americanina un po’ grounge che nel suo locale faceva la barista. Anche il papà di Raffaele Sollecito, il quasi ingegnere «cannomane» fidanzato della biondina, giura sull’innocenza del figlio. È stata lei a dare la stura, in qualche modo autoaccusandosi ma sempre con un ruolo marginale. Lumumba, padre di un bimbo di dieci mesi, una casa e una bella ragazza polacca che lo aspetta, dalla sua cella ripete: «Io in quella casa non sono mai entrato». Addirittura sfida: «Non troverete mai mie impronte. E ci sono testimoni pronti a confermare che quella sera ero al lavoro».
Tocca agli investigatori verificare. Certo qualche «licenza» fantasiosa Patrick ha dimostrato di sapersela prendere. Raccontando in giro, per esempio, di essere parente di Patrice Lumumba, il leader congolese ucciso nel 1961. Una piccola bugia: «Nessuno della mia famiglia lo conosce» ha smentito seccato Francois Lumumba, figlio del politico.

Il suo avvocato lancia appelli: «I testimoni si presentino». Uno lo hanno trovato i giornalisti di Matrix - un senegalese di 29 anni, regolare - che lo ripete: «La sera dell’omicidio ho visto Diya in birreria. Lavorava tranquillo, come sempre». Peccato non ricordi che ora fosse.

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