La moda italiana combatte contro la gelata dei mercati

da Milano

«Non è facile crescere in un Paese che non cresce». Così il presidente della Camera nazionale della moda, Mario Boselli, sintetizza la sfida che il settore - oltre 97mila aziende che occupano più di 850mila addetti, il 12% della forza lavoro nazionale - è chiamato ad affrontare, in un 2008 rivelatosi più difficile del previsto. Del resto, già l’ultimo trimestre del 2007 ha visto la crescita del fatturato ridimensionata dal 2,9% al 2,5 per cento.
E se la pelletteria mantiene le posizioni, il peggioramento è stato particolarmente intenso nelle calzature (meno 3,8%) e meno pronunciato nella filiera tessile, dove ha superato di poco il meno 1 per cento. Supereuro, crisi dei subprime, recessione strisciante, senza dimenticare la sempre più agguerrita concorrenza di Paesi a basso costo di manodopera: tutti fattori che giocano contro l’espansione di quella che resta una delle colonne portante del made in Italy.
Eppure, il «bello ben fatto», come lo definisce Boselli, ha ancora molte frecce al suo arco, a cominciare dall’adozione di nuove strategie competitive. I punti forti - come dimostra la ricerca condotta da Camera nazionale, Centrobanca e Censis - , sono creatività, versatilità, investimenti sul marchio, innovazione tecnica e, ultimo ma solo in ordine di tempo, il rafforzamento della logistica, che consente di ridurre al minimo i tempi di consegna del prodotto finito.
Difficile, ma non impossibile: ne sono la prova i successi raccontati dagli stessi imprenditori del settore, dai vicepresidenti della Camera della moda, Vittorio Missoni e Saverio Moschillo, ai numeri uno della Tessitura e Stamperia Verga, Luigi Zoni, e di Harmont&Blaine - italianissima, anzi napoletana verace, nonostante il nome -, Domenico Menniti.
Storie di imprese e di uomini diversi, che hanno in comune la capacità di affrontare le incognite del mercato, cercando spazi di crescita nei Paesi emergenti e non solo, puntando sulla flessibilità e sulla qualità del prodotto.
Certo, non è facile: anzi, è una tensione continua, «un sistema bello ma faticoso» come ha sottolineato il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, capace però di garantire grandi soddisfazioni a chi ne segue le logiche, a partire dal «policentrismo» dei mercati, dal Messico al Dubai, che ha sostituito il «monocentrismo» americano che ha dominato i decenni passati. Ma è proprio questo cambiamento ad aprire nuove prospettive, consentendo di uscire dall’asfissiante «mercato a clessidra», dove si espande solo il lusso e la produzione a basso costo, per lo più made in China, sacrificando il livello medio-alto, vanto della moda italiana.


«Non è vero - argomenta De Rita - che non esiste più un ceto medio a cui venderla, perché si è impoverito: è solo cambiata la geografia. In Russia, in Cina, in India la classe media è in ascesa: e se io fossi un imprenditore del made in Italy, è lì che punterei».

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