La modernità? Si vede meglio dalla provincia

I n un piccolo paese il futuro arriva tardi, ma lo vedi benissimo. Ci sono storie che può raccontare solo chi cresce lì, in quelli piccoli, con la p minuscola, due, cinque, massimo diecimila abitanti, magari con il castello in alto, le mura frammentate che scendono giù, la campagna vuota e sterminata, una strada orizzontale che con orgoglio cieco continuano a chiamare il corso. Questo quando va bene. A volte sono solo quattro case arroccate sulla schiena di una montagna. Li potete chiamare Malo, San Luca, Cavaglià, Bellano, Vinchio, Grottole, Acitrezza. O dargli uno pseudonimo come Fontamara o Regalpetra. La sostanza non cambia. Fate solo attenzione a una cosa: i paesi non puzzano di nostalgia. Non sono kitch. Non sono neppure luoghi della memoria. Non fatevi ingannare dai camposanti. I paesi sono il posto migliore dove raccontare la modernità. Quale? L’ultima. O quella precedente. O quella prima ancora. C’è sempre una modernità che bussa alla porta dei paesi: l’elettricità, il catrame, la fabbrica, la televisione, i trattori, i centri commerciali, i videogame, il Grande Fratello, la rete wireless e chissà quale sarà la prossima. Non era difficile seguire il destino della Rai. Era già scritto. Bastava ascoltare i ricordi di un paese che negli anni ’50 viveva di terra e non di pensioni come adesso. Vi ricordate dove avete visto per la prima volta la televisione? «A casa della Dc». Della Dc? «Sì, alla sezione dei democristiani che stava qui in piazza. Fu il partito a portare la prima televisione, quella di Lascia o Raddoppia, in bianco e nero». Lo stesso vale per gli aiuti di Stato. «Ci davano i soldi per costruire la stalla. Solo che in tutto il paese c’era una sola mucca. Allora quando veniva il funzionario a fare i controlli la facevamo girare da una parte all’altra. Era sempre la stessa. Poi quando se ne andava cominciavamo a costruire il resto. Sopra la stalla una casa, poi un secondo piano, poi il terzo, fino al terrazzo». E la mucca? «Quella mica era nostra. L’affittavamo per finta, solo per la Cassa del Mezzogiorno».
Sono le Esche vive (Mondadori) di Fabio Genovesi. È la Toscana che non si racconta. Qui i ragazzi se restano si ritrovano con le mani spezzate, precari, goffamente ignoranti, senza un luogo fuori dove andare, perché hanno perso perfino la mappa per scappare e se una come Tiziana, trent’anni, un master all’estero, tre o quattro lingue in tasca, ci riesce, va via, poi torna per follia civile, perché non resiste ai sensi di colpa o perché semplicemente navigare è necessario, ma non è mai stato facile. Come cavolo fai a rinunciare a tutto per salvare un paese che sopravvive così com’è?
È la Grottole di Mariolina Venezia, quei Mille anni che sono qui dove la modernità sembra che non passi e invece sconvolge tutto, solo che poi va via e ti convinci che tutto sia sempre uguale. È il simulacro di Santa Cristina d’Aspromonte, che appare come quel che resta dell’America. La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi è il miracolo di una grazia, non importa se divina o sotto le vesti di una prostituta. È il romanzo di tutti quelli che sono partiti e la saga familiare dei pochi che sono tornati. La promessa di modernità è quella degli americani che ritornano, tutti uguali, tutti pronti a raccontarti come in America sia tutto grande, esagerato, troppo grande, troppo esagerato. Li trovi in ogni paese questi qui, come in ogni casa di ogni paese c’è un cugino, un fratello, una zia che è partito per l’America e le sue tracce restano nei cassetti di qualche scrivania. Solo quelli di paese fanno ancora i conti di quelli che sono emigrati. E fanno i conti della vecchia modernità.


Tutti insieme questi paesi sarebbero una metropoli. Ma a chi li abita basta non diventare provincia. Sono altra razza i paesani. Niente di provinciale. Non invidiano la città. Il paese si sente unico. La provincia è solo una città frustata.

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