Verona - Tanto per iniziare, dice: «Solo sul palco sono me stesso». E infatti bisogna ascoltare il nuovo dvd/cd Sette notti in Arena, nel quale lui, Luciano Ligabue, suona con i settanta elementi dell’Orchestra dell’Arena il suo miglior concerto, intenso e calibrato com’è, per nulla autoreferenziale e forse persino candido nell’entusiasmo verace che traspare da tutte le canzoni. E poi, bisogna fare attenzione al pubblico: canta in coro dall’inizio alla fine, un entusiasmo che ce ne fossero. «Suonerei sempre all’Arena», spiega seduto al tavolo di un ristorante a cinquanta metri da lì, dove stasera ai Wind Music Awards ritirerà il disco multiplatino per il cd Secondo tempo e il premio speciale «Arena di Verona». E comunque ci tornerà per altri sette concerti dal 24 settembre al 3 ottobre, sempre lui e sempre la stessa orchestra. «Abbiamo un rapporto magico», conferma sicuro. È appena arrivato, smagrito e bello abbronzato, da qualche concerto in giro per l’Europa e sotto sotto sta covando la svolta, la rinascita che s’impone dopo i primi vent’anni di carriera e adesso è proprio dietro l’angolo, giusto il tempo di aspettare un altro po’.
Quanto, Ligabue?
«Il prossimo album di inediti uscirà nel 2010, credo alla fine. Dopo i due greatest hits usciti l’anno scorso, ho per forza chiuso una pagina della mia carriera. E il nuovo album ne aprirà un’altra. Finora ho scritto tantissimo materiale per le nuove canzoni».
Le sue ultime uscite dal vivo sono state sempre meno rock. Sarà così anche nel nuovo album?
«La definizione di rock è sempre più incerta, per tutti. Fino a poco tempo fa credevo che fare rock significasse avere una batteria poco articolata e aggressiva. E le chitarre in bella evidenza».
E adesso?
«Adesso io non ne sento più la necessità: ho piuttosto bisogno di far arrivare sempre più chiara la mia voce».
Potrebbe cantare anche in inglese.
«Ma le mie canzoni e il mio linguaggio fatto di cose quotidiane sono intraducibili in inglese. Come si potrebbe fare con Certe notti ad esempio? Nella traduzione bisognerebbe inventarsi degli escamotage che tradirebbero il significato originale. La canzone è già, in sé, un atto di presunzione, un modo di alzare la mano e richiamare l’attenzione del pubblico. Ma ha senso solo se hai davvero qualcosa da comunicare».
Lei canta insieme ad altri cinquantacinque artisti anche nel brano «Domani» a favore dei terremotati dell’Abruzzo. Zucchero, pure lui nel cast, ha detto che non è granché.
«È una realizzazione nata sull’onda dell’urgenza. Prima avremmo dovuto cantare la versione italiana di Alleluja di Leonard Cohen. Ma poi non c’era abbastanza tempo per risolvere la questione dei diritti. Il brano insomma non mi dispiace e, di certo, ciascuno dei 56 cantanti è riuscito a essere se stesso, mica poco. Mi hanno chiesto di partecipare dicendo: è importante che tu ci sia. E io ci sono stato».
Però non sarà al concerto del 20 giugno all’Olimpico, sempre pro terremotati.
«Mi hanno invitato, ma mica posso fare tutto».
Dopo anni di esposizione continua, quest’anno lei in Italia si esibisce solo all’Arena e poi stop. Paura di diventare troppo autocelebrativo?
«Ho paura di tutto tranne che di questo. D’altronde, ogni volta che un artista sale su di un palco, in qualche modo si autocelebra e quindi cosa bisogna fare, sparire? In ogni caso, tutti noi cantanti, si sa, abbiamo notevoli problemi di ego».
Sarà per questo che tanti suoi colleghi esternano su qualsiasi argomento. Lei che cosa ne pensa del caso Noemi?
«Io mi limito ad assistere. È evidente che è un caso caldo, ma sono sicuro che ciascuno può farsi la propria opinione».
Ligabue, lei sta studiando da diplomatico.
«Quello è uno spettacolo che vive di affanni tutti suoi, non è come il Festivalbar, dove sono andato tante volte. A Sanremo non ho mai cantato. Ma chissà che in futuro non lo faccia... ».
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