Roma - «Sconfitte cocenti», «smobilitazione dell’elettorato», «decomposizione del partito in cordate personali», «profilo castale» di un gruppo dirigente fatto da «quelli, per dirla brutalmente alla Berlusconi, che non hanno mai lavorato», e che sono «pronti a sacrificare le chance di vittoria pur di sopravvivere». L’elenco dei sintomi del «fallimento» del Pd che sciorina Franco Monaco, stretto collaboratore di Romano Prodi fin dai primi giorni dell’Ulivo e a lungo parlamentare, è impressionante. «La cosiddetta “nuova stagione” è sostanzialmente fallita. E, come dice Renato Soru, occorre recuperare l’Ulivo prodiano».
Ha apprezzato la scesa in campo del governatore sardo?
«Ho apprezzato molto il suo auspicio a mettere in evidenza le genuine radici del Pd nell’esperienza di Prodi, il suo governo e il suo progetto di Ulivo: “15 anni buttati”, fu invece lo slogan di Veltroni, e aver sconfessato quei capisaldi ha portato il Pd nel vicolo cieco in cui è ora».
Perché dice che la nuova stagione è fallita?
«Be’, mi pare ci sia solo l’imbarazzo della scelta... Intanto la teoria di sconfitte: dopo le politiche la disfatta di Roma, poi la Sicilia, ora l’Abruzzo. E l’unica eccezione del Trentino è stata spiegata da Dellai, smentendo la versione ufficiale: il contributo del Pd alla sua vittoria è stato puramente ancillare, altro che vocazione maggioritaria. Il Pd, dice Dellai, non ha realizzato alcuna sintesi di culture, è la pura continuità Pci-Pds-Ds in cui il popolarismo non ha impresso alcun segno».
E poi?
«Il Pd si sta decomponendo in una confederazione di cordate, e quelle primarie fondate su un patto oligarchico tra i capicorrente che avevano già deciso il leader e su candidature di pura testimonianza hanno concorso alla decomposizione. In nome del dogma dell’unità della “ditta”, inteso come Ds, Bersani fece un passo indietro, e così si è sepolto sotto un falso unanimismo l’articolazione delle posizioni interne. Che sono riemerse il giorno dopo, perché l’unico modo per eliminare la patologica litigiosità interna al Pd era aprire un confronto politico trasparente e leale. Che non si è voluto. E poi c’è la degenerazione castale del Pd».
Castale?
«Anche chi non si occupa di politica ormai lo percepisce a pelle: il gruppo dirigente del Pd ha esaurito la sua spinta propulsiva ma resta inamovibile. Il centrodestra, nel quale non potrei mai militare perché difetta di un’accettabile democrazia interna, proprio in ragione della sua forma “monarchica” riesce a trasmettere un messaggio di maggior novità e apertura alla società. Il monarca Berlusconi, nella sua sovrana libertà, può permettersi di cooptare in Parlamento e nel governo una rappresentanza meno auto-referenziale e da ceto politico, più espressiva della società reale. Dilettanti, affaristi e veline compresi. E questo ci riporta a Soru».
Come?
«Non so se Soru sarà il candidato leader, non è un problema di oggi. Ma il centrosinistra ha ancor più bisogno del centrodestra di una leadership forte per venire a capo della sua frammentazione. E mi pare di scorgere nelle parole, e ancor più negli atti di Soru, dall’audacia del suo programma dichiaratamente alternativo alla sfida all’establishment di partito, che evocano il berlusconismo, l’esigenza iscritta nell’Ulivo. Un radicale ricambio del gruppo dirigente che attingesse alla società, facendo leva su una leadership “nuova”. Come fu nel primo governo Prodi, e non nel secondo purtroppo».
Non la preoccupa che a designare i vostri leader sia sempre il gruppo De Benedetti?
«Con Prodi non fu così. Se così fosse sarebbe un problema, ma l’Ulivo si ispira ad un beninteso primato della politica, mentre i gruppi di interesse spingono sempre per una politica debole. Né Prodi né Berlusconi son stati trattati bene dall’establishment.
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