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Albania e jihad: cosa succede veramente oltre mare

Tra i vari paesi dell’area, l‘Albania ha assunto un ruolo considerevole per quanto riguarda la radicalizzazione di matrice jihadista,

Albania e jihad: cosa succede veramente oltre mare

L’Isis ha da tempo dimostrato un notevole interesse per l’area Balcanica, da sempre ritenuta dal jihadismo “la porta dell’Europa”; non è un caso che nel giugno 2015 la casa di produzione del “Califfato”, la al-Hayat”, ha pubblicato un video orientato proprio al contesto balcanico, dal titolo “Honor is in Jihad. A Message to the People of the Balkans”, con lo scopo di incitare i musulmani dei Balcani alla jihad a casa propria o all’egira verso lo Stato Islamico.

Tra i vari paesi dell’area, l‘Albania ha assunto un ruolo considerevole per quanto riguarda la radicalizzazione di matrice jihadista, con reti di propaganda e reclutamento attive sul territorio e con una stima di 140-160 jihadisti partiti per il Medio Oriente con l’obiettivo di unirsi a Isis e a gruppi qaedisti: di questi una trentina sarebbero rientrati in patria e una decina sarebbero morti. I nuclei familiari albanesi trasferitisi nello “Stato Islamico” sarebbero circa diciotto.

Per quanto riguarda il Kosovo, il Kosovar Center for Security Studies (KCSS) un anno fa citava 232 casi di jihadisti partiti per la Siria, anche se non è possibile confermare l’appartenenza all’etnia albanese di tutti.

Nel Paese delle Aquile vengono segnalate diverse moschee fuori controllo e alcune zone specifiche come Kavaja, Cerrik, Librazhd e Pogradec diventano terreno potenzialmente fertile per la propaganda jihadista. Sono inoltre interessanti i legami emersi tra reti radicali locali e l’Italia:

Il principale network albanese di reclutamento, sgominato dalle autorità locali nel marzo 2014 e gestito da Genci Balla e Bujar Hysa, due imam attualmente in carcere e sotto processo a Tirana, aveva svolto un ruolo chiave nel reclutamento di Maria Giulia Sergio e Aldo Kobuzi, nonché di suo cognato Mariglen Dervishllari. Tra gli arrestati figura anche Verdi Morava, vissuto per diversi anni in Italia, dove aveva conseguito una laurea in ingegneria meccanica ed era inoltre titolare di una società di trasporti a Bologna.

La progressiva radicalizzazione in Albania è legata principalmente all’infiltrazione dell’ideologia wahhabita nel paese, a partire dai primi anni 2000, accompagnata da ingenti fondi provenienti dal Golfo, volti a finanziare le attività di propaganda.

Un’infiltrazione che va però contestualizzata, in quanto le dinamiche sono totalmente differenti da quelle bosniache o kosovare; nel 1967 infatti Hoxha istituiva l’ateismo di Stato, vietando la creazione di associazioni religiose, la presenza di luoghi di culto e qualsiasi tipo di attività religiosa.

Come spiega bene il giornalista Ervin Hatibi, in epoca post-comunista l’attrazione verso la “terra promessa occidentale” ha allontanato gli albanesi dall’Islam. Un Islam tra l’altro “etno-culturale” e senza figure di riferimento. Ancora oggi non è possibile definire un “Islam albanese” visto che nel paese sono presenti varie espressioni di Islam, tra cui l’ufficiale Comunità Islamica Albanese (KMSH), che ha tra l’altro recentemente chiesto aiuto alle istituzioni per controllare le moschee radicali; la confraternita della Bektashiyya (circa il 15% della popolazione), tanto odiata dai wahhabiti; vi sono poi i numerosissimi albanesi che vedono l’”essere musulmano” come un’appartenenza etnica e quelli che si professano atei.

Il disappunto nei confronti dell’occidente, le difficili condizioni economiche nelle zone rurali e popolari, l’alto tasso di disoccupazione, tutti fattori a cui si va ad aggiungere una disorganizzazione a livello religioso-organizzativo di matrice istituzionale, che hanno creato terreno fertile per la propaganda wahhabita.

Senza ombra di dubbio l’alto numero di jihadisti partiti da Albania (140-160) e Kosovo (200-232) secondo le ultime stime ICSR e KCSS, mettono in evidenza un fenomeno che va monitorato con cautela.

Una problematica che era tra l’altro già stata individuata dai servizi di sicurezza russi nell’aprile 2013, quando l’FSB rilasciò dei dati che già evidenziavano cifre preoccupanti per quanto riguarda i jihadisti partiti da Albania e Kosovo, rispettivamente di unità 50-80 e 50-100 circa.

Non bisogna però creare allarmismi su un’ “Albania ricettacolo di terroristi” o confondere l’infiltrazione wahhabita con un presunto “Islam albanese” che è al momento molto difficile da definire.

Come diceva Hatibi: “Parlare di Islam in Albania è sempre materia delicata, se non spinosa”.

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