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Nicolai Lilin: "Ecco perché i russi vogliono uno zar"

Intervista a Nicolai Lilin, autore di Putin. L'ultimo zar (Piemme)

Nicolai Lilin: "Ecco perché i russi vogliono uno zar"

Il citofono non funziona. E forse non può essere altrimenti perché il luogo in cui stiamo per entrare è fuori dal tempo. Qui ci sono le luci e le ombre del Medioevo, ma anche le mille contraddizioni di Rasputin e i grandi autori russi. Ci sono antiche icone ortodosse e Madonne che imbracciano pistole. E poi coltelli di mille fogge e dalle lame affilate. Ognuno di essi conserva una storia, ma bisogna entrare per farsela raccontare. Varchiamo la soglia e ci sediamo di fronte a Nicolai Lilin, autore di Putin. L'ultimo zar (Piemme)​. Abbandoniamo l'umido autunno milanese e abbracciamo il secco freddo siberiano.

Partiamo dall'inizio. Da un uomo affascinante, il più santo e il più peccatore dei russi: Rasputin. È vero che questo "santo diavolo" incontrò il nonno di Putin e che lo benedisse?

È una delle storie che lo stesso Putin e il suo entourage raccontano. Nei primi anni della sua ascesa, il presidente russo è stato molto abile nel creare una serie di leggende - basate comunque su storie vere - su se stesso e sulla propria famiglia. Putin non si è inventato nulla. Nella sua vita c'è un vero e proprio epos. In Russia, chi lo ama e lo reputa uno "Zar" racconta spesso queste leggende. Ancora oggi, Rasputin viene considerato la parte sincera - nera, ma allo stesso tempo più vicina a Dio - della Russia. È l'anima contradditoria e ambigua dello spirito russo: di umili origini, riuscì ad entrare nel palazzo dello zar. Senza dubbio era ambiguo. Ma era un vero russo.

Anche Putin è un vero russo?

Sì, nel libro racconto la sua metamorfosi. Da giovane, e anche nei primi anni della sua presidenza, parlava spesso di portare in Russia il modello di democrazia occidentale. Un progetto che ha presto accantonato perché, da vero russo, ha sentito quella corda intima che c'è nella nostra cultura: la richiesta di autoritarismo. Questo fatto ci riporta ad Ivan il terribile: una mattina, tutti gli uomini più ricchi prepararono un'enorme carovana di slitte e andarono dalla madre del piccolo Ivan e le chiesero di metterlo al loro servizio e di nominarlo zar. La gente voleva uno zar. Non immaginavano per sé un altro zar. Dopo le "età torbide", torna sempre il modello autoritario.

Come mai?

Perché noi siamo ortodossi. Abbiamo ereditato dai bizantini l'idea che siamo la terza Roma e che non ce ne sarà una quarta. Il popolo vuole lo zar e Putin lo ha capito. Ha anche litigato con molti amici per questo. C'è una storia interessante, che però non ho messo nel libro. In un'intervista che gli ho fatto, Sergey Pugachyov, "il banchiere del Cremlino", mi ha raccontato un aneddoto interessante: Putin un giorno si era recato con Schröder in un monastero. Vennero accolti da 50mila persone e le autorità locali cominciarono a temere per la sicurezza del presidente e del suo ospite. Così mandarono le squadre di polizia e quella che doveva essere un'operazione di contenimento divenne un massacro: i poliziotti cominciarono a picchiare la gente e tante persone soffrirono molto. Putin racconta a Pugachyov questo aneddoto e dice: "Ma quale democrazia? Io ero lì. Le persone venivano massacrate dalla polizia e poi venivano da me per baciarmi le mani. I russi vogliono uno zar".

Nicolai Lilin
Nicolai Lilin in una foto d'archivio

Una cosa simile però è inconcepibile per un occidentale...

Putin è un russo. Per capirlo bisogna prima comprendere l'animo russo, la sua cultura e il senso di questo Paese. Non è né una critica né una lode. Non c'è nessun bene o nessun male in questo. È solo una realtà diversa.

I tre pilastri dell'educazione di Putin sono stati la scuola, sua madre e la strada. Come hanno influito su di lui questi tre elementi?

Sono stati fondamentali. Putin, nella sua infanzia, ha sofferto le carenze di suo padre, che era un grande eroe di guerra ma aveva importanti deficit fisici. Essere figlio di un disabile e crescere in un quartiere dove tutto si basava sulla forza ha creato nel giovane Putin una sorta di presa di distanza da suo padre. È stato più vicino alla madre, che non era una donna particolarmente colta ma che lo amava tantissimo. Lei è stata un vero e proprio punto di riferimento. Putin vedeva i padri degli altri bambini: erano tutti belli e in salute. Il suo invece era storto e sofferente perché aveva vissuto una vita difficilissima. Era un grande uomo, ma Putin l'ha capito dopo. Solo negli ultimi anni, si è avvicinato a lui e, già da presidente, mollava tutto per passare anche solo un pomeriggio con il padre. La scuola e la strada hanno formato quel Putin che noi conosciamo e vediamo nelle azioni quotidiane. La "base" che forniscono i genitori, infatti, la scopri solo conoscendo davvero una persona: sono quelle parti del carattere che non vedi una azione politica. Nell'azione politica vedi l'uomo in base all'ambiente in cui è stato formato: quando lo picchiano, Putin risponde. Quando c'è la mischia, lui si si butta in mezzo. Stessa cosa con la scuola: Putin ha capito che era un modo per ascendere in società: se studi impari qualcosa - questo è stato il suo ragionamento - diventi qualcuno. Tante persone con cui aveva rapporti durante l'infanzia sono diventate dei criminali. Non era erudito, ma si dedicava agli studi. Era molto metodico. E ha fatto così per tutta la vita.

"Tutte le perosne per bene hanno cominciato nei servizi segreti". È una frase di Heny Kissinger che Putin ama ricordare per parlare della sua esperienza nel Kgb. Quanto è stato importante il ruolo dei servizi segreti nella sua ascesa politica?

I servizi segreti, nel suo percorso politico, non sono stati decisivi, ma indispensabili. Putin non è stato scelto da Sobčak (il primo sindaco democraticamente eletto di San Pietroburgo, Ndr) perché era del Kgb, ma perché era uno del Kgb con certe peculiarità. Aveva un'incredibile capacità nel creare contatti. Per capire però perché Putin è entrato in politica dobbiamo prima comprere quel periodo storico: in quegli anni, i grandi uomini del partito cercavano di trafugare in Occidente tutti i beni del partito. Per questo motivo, gli servivano le persone della criminalità organizzata: all'epoca, infatti, l'unico sistema per portare capitali all'estero era illegale. Serviva quindi qualcuno in grado di comunicare sia col partito sia con i criminali. Putin era l'uomo adatto per farlo. La frase di Kissinger dimostra la distorsione dei nostri tempi. Parliamo male del Medioevo, a volte anche a torto, ma noi non siamo forse in un Medioevo tecnologico? Quando le spie entrano in politica è sempre un male.

È dunque vero quello che si dice su Putin e gli oligarchi?

Lui sicuramente si è arricchito grazie a loro: è una cosa confermata e che lui cerca di nascondere. Ci sono però documenti e atti processuali in Germania, Lussemburgo e Spagna. Il rapporto con gli oligarchi era indispensabile. Putin parla con gli oligarchi e non può fare altrimenti. In Russia, si può arrivare al potere solo in due modi: ottenendo l'appoggio delle famiglie degli oligarchi oppure facendo come i comunisti, massacrando, giustamente o ingiustamente, milioni di persone. In Russia Putin non decide: sono gli oligarchi vicino a lui a farlo. A lui gli oligarchi lasciano solo una piccola parte delle decisioni, in particolare quelle di carattere geopolitico e geostrategico, come la guerra in Siria. Se però si deve scegliere qualche azienda a cui far estrarre il petrolio, allora sono gli oligarchi a decidere, come è successo in Siberia con Nornickel'. A proposito: per quel disastro qualcuno è stato condannato?

Norilsk
Un'immagine dall'alto di Norilsk, al centro di un importante disastro ambientale

Putin non è dunque forte come sembra?

Lo è, ma solo nell'ambito che gli è stato affidato. Ci sono ambienti in cui lui non può entrare, ma dai quali guadagna parecchio. È come se gli oligarchi avessero preso in affitto il Paese: a loro non interessa la politica estera o interna della Russia. A loro interessano solamente gli affari. Putin non è Stalin e sbaglia chi lo paragona a lui. Stalin decideva da solo, anche se c'era il comitato centrale. Anzi, fu proprio Stalin a fucilare metà del comitato poco dopo averlo premiato.

Quando sono stato in Siria, ho visto diversi manifesti che ritraevano Putin insieme al presidente Bashar al Assad e a Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah. In quel Paese il leader russo è visto come il salvatore della patria, il difensore dei cristiani. Una sorta di katekhon, colui che trattiene l'Anticristo. Dimensione mistica a parte, per Putin era necessario scendere in campo in Siria per non perdere gli sbocchi nei mari caldi e un importante alleato in Medio Oriente. Dove vuole arrivare?

Alcuni ritengono che Putin voglia ricostruire l'Unione sovietica, ma non è così. Lui non è un sognatore come Gorbačëv (che infatti si è fatto abbindolare da tutti). Putin non è un sognatore, è molto freddo e logico. La sua visione geopolitica si rifà soprattutto agli interessi del sistema economico che lui mantiene e dal quale è mantenuto. In Siria bisognava rimanere in qualche modo. Per alcuni ha fatto bene, per altri male. Se pensiamo alla Russia come a una lumaca, dobbiamo dire che adesso, dopo lo slancio iniziale, si sta ritirando nel suo guscio. C'è chi dice che è colpa della Nato che la sta accerchiando, per esempio in Ucraina e in Bielorussia. Ma sai qual è il vero problema? È che il Paese è in stallo. Per questo crolla tutto e svanisce anche la nostra presenza in Siria, dove facciamo il gioco dei cinesi. I russi se ne vanno e rimangono solamente i billboard. Nel mondo dinamico e basato sulla vita, dove tutto si muove, l'immobilismo non è concesso. Putin sta affrontando questo problema.

Sembra quasi impossibile però pensare a una Russia senza Putin...

Per una parte degli analisti occidentali è impossibile anche solamente pensare a una Russia. Tantissimi ritengono che la Russia, nel giro di pochi anni, non ci sarà più. Molti sostengono che l'esistenza della Russia è dannosa per il mondo perché deve esistere un solo impero. Io però credo che la Russia, a livello geopolitico, con o senza Putin, è nei guai. Il problema della Russia infatti non è lui: è nelle forze che la vogliono divisa. Putin ha sbagliato nel condurre una politica interna che ha allontanato la Russia dal binario della democrazia del modello occidentale. Ha scelto la via dell'impero e abbiamo visto com'è finita. Da una parte c'è una setta di ortodossi che l'ha proclamato santo e dipinge icone con la faccia di Putin. Credono infatti che sia stato mandato dal cielo per combattere l'Anticristo. Dall'altra ci sono quelli che dicono che ha rovinato tutto. Io non credo a nessuno dei due. Io ritengo che all'epoca in cui Putin è diventato presidente si dovesse prendere una decisione. Era un momento difficile però lui l'ha fatto.

Se Putin entrasse nel tuo studio e ti chiedesse un tatuaggio, tu cosa gli disegneresti?

Sicuramente lo tatuo perché sarei curioso di ascoltare la sua vita. Gli tatuerei la mia classica Madonna armata siberiana perché è una base che rappresenta molto bene la Russia: una donna con un volto dolce, ma capace, se minacciata, di reagire in maniera violenta. La vera domanda però è: cosa si porterebbe lui da una simile operazione? La sua figura e la sua politica non cambieranno certo per via di un tatuaggio. Putin è una cartuccia sparata, non cambierà più. L'unico modo per la Russia di salvarsi, se lui davvero la ama, è quello di cominciare a preparare qualche sostituto, più giovane e più energico. E, soprattutto, meno legato agli olicarchi.

Ad oggi però non sembra averlo trovato...

Non ha voglia perché non crede che la Russia possa avere un'altra via. Secondo Putin, l'unica via possibile è quella del neozarismo. Ma questo però è uno scenario triste anche per lui: la monarchia russa è scritta infatti con sangue, tradimenti e grandi delusioni. Non c'è nessuno re che è finito bene. Non c'è nessun "e vissero felici e contenti". I monarchi russi sono vittime di sangue e disperazione.

Anche la letteratura russa, molto spesso, è costellata di sangue e disperazione.

Chi sono gli scrittori e i letterati? Sono persone sensibili, spesso sono addirittura profeti, soprattutto se parliamo dei poeti. I letterati si collegano all'universo e rimangono fuori dal tempo: hanno uno sguardo più ampio. Lermontov, grandissimo poeta e scrittore, fu ucciso da giovanissimo. A 16 anni scrisse una poesia in cui predisse l'arrivo di Stalin e lo descrisse in modo incredibile: un nuovo Dio che camminerà sulle piazze, vestito con una giacca militare e il passo in grado di far tremare tutto; ha predetto anche il crollo della dinastia dei Romanov. I nostri scrittori sentono tutto questo, sentono la tensione e la disperazione del popolo. Vogliamo parlare della schiavitù della gleba? Molti scrittori come Turgenev, Gogol, Čechov (che lo faceva in modo molto elegante), Dostoevsky e Tolstoy criticavano il regime di allora. Erano ciò che negli anni Settanta hanno cominciato a chiamare "dissidenti", gli intellettuali che hanno un'idea diversa rispetto a quella del partito.

Un grande dissidente, peraltro in parte riabilitato da Putin, è stato Solženitsyn.

Solženitsyn è molto criticato dai sostenitori di Putin perché vedono in lui un traditore della patria che lavorava per gli americani. In Russia, infatti, molti negano ancora il sistema gulag. Per me però è facile parlare dei gulag perché mio nonno li ha vissuti e mi ha raccontato com'era vivere lì dentro. La brutalità di quel sistema per me è nota. Io ho un'ottima opinione di Solženitsyn: sicuramente fa parte della coscienza culturale e dell'etica russa. Ma soprattutto fa parte di quell'elemento acuto della coscienza che è presente in tutti noi e che spesso allontaniamo.

Alcune copie de Il dottor Živago

Una specie di grillo parlante?

Esatto: un grillo parlante che noi cerchiamo di zittire. È per questo che in Russia molti ancora lo odiano. Solženitsyn è una figura emblematica, facile sia da appoggiare sia da odiare. Ha poche sfumature perché scriveva cose concrete. Reali. Chi sostiene il regime comunista lo odia, chi invece ama la democrazia lo rispetta. Adesso però pensiamo a Pasternak, che scrisse, durante l'epoca di Chruščëv, Il dottor Živago. Pasternak viene massacrato in maniera disumana: vince un Nobel, ma non glielo fanno ritirare. Lo mandano in esilio nella sperduta campagna russa dove muore di infarto. È lì che bisogna soffermarsi. Il caso Pasternark è emblematico perché non ha criticato il regime, ma ha messo, sotto una luce obiettiva, i processi storici, permettendo ai suoi lettori di crearsi un'opinione, lasciando fuori il partito. Pasternark ha fatto addirittura peggio di Solženitsyn. Solženitsyn, infatti, ha criticato la linea del partito e, quindi, ne ha ammesso l'esistenza. Pasternak invece l'ha ignorata e, così facendo, ha distrutto il partito. Solženitsyn è stato lasciato liber di andersene. Pasternak, invece, l'hanno fatto morire.

Le icone continuano a proteggere lo stanza. Fuori piove.

Lasciamo questo piccolo pezzo di Russia nel cuore di Milano.

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