Il Kosovo è sempre più nel caos

La manifestazione antigovernativa indetta dall’opposizione sabato scorso per le strade di Pristina è degenerata in guerriglia. Oltre la crisi politica, il Paese deve fare i conti con una situazione economica drammatica

Il Kosovo è sempre più nel caos

Scontri, molotov, lacrimogeni. La manifestazione antigovernativa indetta dall’opposizione sabato scorso per le strade di Pristina è degenerata in guerriglia. Nel mirino dei nazionalisti scesi in piazza ci sono due intese firmate dal governo ad agosto che prevedono più autonomia per la minoranza serba e la demarcazione dei confini con il Montenegro. I manifestanti chiedono anche le dimissioni del primo ministro Isa Mustafa e del ministro degli affari esteri Hashim Thaci. Il bilancio degli scontri alla manifestazione è stato di 28 feriti - quasi tutti poliziotti - e una quarantina di arresti.

Nel quotidiano kosovaro Gazeta Express si legge che “il governo ritiene che la violenza mostrata in questa protesta sia stata organizzata da coloro che sono usciti sconfitti dalle elezioni tenute regolarmente in Kosovo, e che stanno cercando di realizzare le loro ambizioni politiche bruciando le istituzioni statali e avvicinandosi alla criminalità e all’anarchia”. Il governo non ha solo condannato la violenza alla manifestazione di due giorni fa, ma ha anche ribadito che “non c’è alcuna possibilità di elezioni anticipate prima della scadenza regolare del mandato che avverrà nel 2018”.

Ma le proteste, hanno giurato i leader dei tre partiti dell’opposizione kosovara - composta da Vetevendosje, Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak), Iniziativa per il Kosovo (Nisma) - non si fermeranno fin quando il governo non presenterà le dimissioni. “Tutto il Kosovo è consapevole che questo governo non rappresenta più il popolo kosovaro, che Isa Mustafa e Hashim Thaci non ricoprono più le cariche di primo ministro e ministro degli esteri e che le proteste dell’opposizione non si fermeranno fino a quando questo governo non darà le dimissioni”, ha spiegato Visar Ymeri, numero uno di Vetevendosje.

Le violenze di due giorni fa e il boicottaggio del parlamento, dimostrano quanto il Kosovo, ad appena otto anni dall’indipendenza avvenuta nel febbraio del 2008 - riconosciuta da 115 dei 193 Paesi Onu -, sia sempre più nel caos. Oltre la crisi politica, il Paese deve fare i conti con una situazione economica drammatica. Secondo gli ultimi dati la disoccupazione è sopra il 30 per cento. E proprio per questo, tra il settembre del 2014 e l’aprile 2015, quasi 140 mila kosovari hanno lasciato il Paese. Di questi, circa 90 mila hanno chiesto asilo politico in Europa, soprattutto in Germania.

Come se tutto questo non bastasse, nel piccolo Paese balcanico, non si fermano neanche le violenze contro i serbi.

L’ultimo episodio è accaduto proprio a dicembre, quando un gruppo di estremisti musulmani albanesi ha sparato a più riprese contro le case e contro alcuni veicoli nell’enclave serba di Gorazdevac. E poi c’è il pericolo concreto dell’Islam radicale. Il Kosovo, infatti, è la nuova frontiera del jihadismo. Una porta d’ingresso per l’Europa dove è facile far passare di tutto. Terroristi compresi.

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