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Non confondiamo i "Kamikaze", quelli giapponesi non erano vigliacchi

Anche a Natale i jihadisti hanno colpito innocenti. Ma chiamarli come i soldati giapponesi che si votavano alla morte e attaccavano solo obiettivi militari è sbagliato. Perchè rituali, doveri e convinzioni si ispiravano a un codice d’onore non alla codardia

Kamikaze giapponesi nella seconda guerra mondiale
Kamikaze giapponesi nella seconda guerra mondiale

Kamikaze. Una parola antica, nata nel 1274, quando il Giappone si salvò dall’invasione mongola guidata da Kubilay Khan grazie a un tifone improvviso che costrinse i nemici a rifugiarsi in Corea. Kamikaze, cioè «vento divino» quello che avrebbe dovuto spazzare via come un tifone anche gli americani nella seconda guerra mondiale. Kamikaze una parola ancora moderna e atroce ma che niente ha a che fare con l’onore. Un kamikaze a Natale si è fatto esplodere davanti alla sede dell'intelligence a Kabul uccidendo sette persone; pochi giorni quattro jihadisti suicidi hanno attaccato una chiesa in Pakistan provocando otto morti. Ma sono solo gli ultimi episodi: dall’11 settembre di diciassette anni fa i kamikaze hanno fatto delle stragi di innocenti la propria identità. Anche questo li divide dai «veri» kamikaze che mai osarono colpire nel mucchio. Colpivano il nemico a costo della vita, ma il nemico era un soldato come loro.La strategia suicida messa a punto dai giapponesi per rispondere agli attacchi americani alle Filippine era far schiantare contro le portaerei caccia carichi di 250 chili di bombe. E i soldati scelti per pilotare i velivoli, tutti tra i venti e i venticinque anni di età, furono chiamati «Ciliegi in fiore». E non a caso. «Lo spirito del samurai ha scelto a purissimo simbolo il delicato fiore del ciliegio. Come un raggio di sole mattutino un petalo di ciliegio si stacca e scende a terra luminoso e sereno, così l’uomo impavido deve potersi staccare dall’esistenza silenziosamente e senza turbamento». La filosofia nobile del guerriero.Anche i reclutamento aveva una prassi. La procedura stabilita dal tenente colonnello Nakajama per reclutare soldati da spedire nel primo attacco suicida, il 25 ottobre 1945 contro una portaerei americana era questa: «Chiunque intenda partecipare all’unità scriverà il suo nome su un foglio di carta. Chi è di diverso avviso lo consegnerà in bianco. Inserite i fogli in una busta che mmi consegnerete entro le ventuno». Consegnare il foglio in bianco era più difficile che scriverci sopra il proprio nome. Si offrivano volontari, certi di morire, nel fiore dei vent’anni: «Diecimila anni di vita» era l’augurio all’imperatore gridato dai soldati prima di ogni attacco suicida. Il diario del guardiamarina Okabe Heich spiegava cosa fosse la guerra: «Qual’è il compito di oggi? Combattere. Qual’è il compito di domani? Vincere. Qual’è il compito quotidiano? Vincere». Un crisantemo bianco intarsiato sulla cabina era il simbolo di ogni kamikaze. Non si sfuggiva dalle proprie responsabilità. Dopo la dichiarazione di resa del Giappone, preceduta il 14 agosto del 1945 da un documento dell’armata imperiale che definiva sovversivi gli interventi kamikaze, il vice ammiraglio Onishui si suicidò secondo il rituale samurai, squarciandosi il ventre con una spada.

Non riuscì nell’intento, ma Onishi rifiutò il colpo di grazia che gli offrì il suo secondo, Kodama, e agonizzò a lungo prima di morire. Onore che appartiene a un’altra epoca. Ma che segna la differenza di significato tra kamikaze di ieri e di oggi: ieri voleva dire onore e coraggio, oggi soltanto vigliaccheria.

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