Recuperiamo l'orgoglio per non tradire la memoria

Recuperiamo l'orgoglio per non tradire la memoria

Quando arrivai a New York all'alba in auto da Montreal, qualche giorno dopo quel tragico 11 settembre del 2001(lo spazio aereo degli Stati Uniti restò bloccato per giorni), mi tuffai subito a capofitto nell'incubo di Ground Zero. Manhattan era avvolta in un pulviscolo velenoso causato dal crollo delle Twin Towers. Si respirava un insopportabile odore chimico e funebre, sprigionato dal carburante degli aerei di linea che dei kamikaze di un dio sbagliato avevano trasformato in micidiali missili, dai corpi liquefatti delle vittime quell'insulso atto di terrorismo, dai detriti dei grattacieli in combustione, dalle sostanze usate per spegnere gli incendi. Eppure in quell'atmosfera da girone infernale lo spirito dei pompieri, dei poliziotti e dei soccorritori che si aggiravano tra le rovine emanava i sentimenti che furono descritti magistralmente un mese dopo quella data infausta da Oriana Fallaci: rabbia e orgoglio.

Sono trascorsi esattamente vent' anni e le foto della fuga dell'Occidente da Kabul, delle persone che abbiamo illuso riconsegnate disperate ai loro aguzzini, delle donne afghane ridotte di nuovo in schiavitù suscitano due sentimenti diametralmente opposti rispetto a quelli di allora: vergogna e paura. Dovevamo esportare la democrazia e, invece, abbiamo privato quel mondo dimenticato della speranza. E fa ancora più male assistere alle acrobazie delle diplomazie occidentali che per difendere un epilogo assurdo tentano di dimostrare che in fondo i talebani sono migliori dei miliziani dell'Isis, come se non fossero entrambi sacerdoti del terrore, come se fossero figli di un Medioevo diverso.

Così ti accorgi sgomento che questi due decenni sono trascorsi invano. Anzi, che stiamo molto peggio: allora, appunto, c'era la rabbia e l'orgoglio per reagire; oggi, invece, c'è la vergogna e la paura dei vinti, di chi non ha il coraggio di opporsi al declino della civiltà fronteggiando la barbarie. Eppure ciò che avviene oggi è il prosieguo di quel giorno di venti anni fa in cui non solo l'America ma l'intero Occidente scoprirono il Male, si resero conto di non essere invincibili, di essere vulnerabili non in una ex-colonia sperduta ma sotto casa, nei luoghi dove lavori o fai la spesa. Le cronache di quel giorno e del presente dimostrano che il «secolo breve» raccontato dallo storico inglese Eric Hobsbawm, quel '900 che ha fatto conoscere al mondo i crimini del nazismo e del comunismo non è ancora finito, o meglio, ha una coda ancora più perversa: alla guerra tra la democrazia e i totalitarismi ideologici, si è sostituito lo scontro tra la democrazia e il ben più insidioso totalitarismo religioso. Con un'aggravante: il fanatismo religioso, se possibile, è ancor più pericoloso del fanatismo ideologico.

Non per nulla l'11 settembre non è finito quel giorno di venti anni fa. La stessa crudeltà, la stessa follia, lo stesso odio sordo li ritrovi nel filo di sangue degli attentati che hanno attraversato questo ventennio: dalle bombe ai treni di Madrid, alle stragi del Bataclan e dello «stade de France» a Parigi; dai kamikaze dell'aeroporto di Zaventem a Bruxelles, al furgone contro i visitatori del mercatino di Natale a Berlino; dai morti al concerto di Ariana Grande a Manchester, ai corpi falciati sulla Rambla a Barcellona e a Nizza. E ancora tanti altri.

L'ultimo, i 200 morti all'aeroporto di Kabul per impedire agli afghani di lasciare il loro Paese, di sottrarsi alla nuova Inquisizione dei preti in pakol e dalle lunghe barbe, è appena di un mese fa. Ecco, ricordando i morti di quell'11 settembre e di oggi, l'Occidente dovrebbe recuperare se non la rabbia almeno l'orgoglio di quei giorni. Per non tradirne la memoria.

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