Severodonestk (Donbass). Il sibilo neanche lo sentiamo, ma l'esplosione del proiettile d'artiglieria è fragorosa, terrificante e alza subito una nuvola di fumo che invade il corridoio. Il colpo diretto ha centrato una parte del bunker. Le urla di dolore dei feriti e le richieste di aiuto di chi è sepolto dalle macerie rendono la scena choccante. Da un'ora siamo sotto pesante bombardamento russo in una base della polizia militare a Severodonetsk, sul fronte del Donbass. In uno spazio angusto invaso dal fumo e dai calcinacci accucciati con i soldati assieme a Franceso Semprini della Stampa e il fotoreporter Alfredo Bosco. I militari sono ben addestrati, anche se qualcuno ha il volto stravolto dalla paura, Nessuno si fa prendere dal panico. Nel caos del bombardamento gli ufficiali danno gli ordini: «Prima i feriti e portate in salvo i giornalisti». Un soldato urla «davai, davai» (via, via), intimando di seguirlo lungo i camminamenti dei bunker sotto la base. Al primo angolo sente il sibilo della morte della prossima granata e ordina: «A terra». Anche lui stringe i denti sotto l'elmetto quando il colpo esplode sopra le nostre teste, ma non sfonda il muro di cemento armato. Di nuovo di corsa verso l'ala del bunker una cinquantina di metri più in là rispetto la zona bersaglio. Per arrivarci bisogna infilarsi in una strettoia e subito dopo appaiono gli altri soldati del reparto ucraino. Alcuni pronti al fuoco per respingere un eventuale attacco di carri armati e fanteria. Altri seduti a terra in attesa del prossimo colpo. Chi sente il sibilo urla «riparatevi» e tutti si raggomitolano pregando che la granata non sfondi le protezioni. Alla fine saranno 40 quelle piombate sulla base. «È la prima volta che ci attaccano così pesantemente. Forse hanno tracciato il Gps dei cellulari cominciando a tirare per fare fuori voi e noi. Oppure è l'inizio dell'offensiva sul Donbass» rumoreggiano i soldati. Però si preoccupano di metterci più al riparo possibile a discapito della loro incolumità. Gli ufficiali tornano a urlare a tutti di spegnere i telefonini o disattivare la geolocalizzazione, che i russi intercettato per indirizzare l'artiglieria.
Tutto è iniziato nell'ufficio del comandante barricato con sacchetti di sabbia e tavole di legno alle finestre. Il colonnello Roman, nome di battaglia Lvov perché viene da Leopoli, ci offre un caffè quando arriva la prima granata che esplode troppo vicina. L'ufficiale non si scompone, ma pochi minuti dopo piomba la seconda e la stanza trema. «Un drone ci sta puntando» spiega con calma l'ufficiale. Alla terza granata gli chiediamo se non sia «meglio scendere nel bunker». Permesso accordato e come scendiamo le scale si scatena l'inferno. I primi colpi esplodono attorno alla base facendo saltare una riserva di munizioni. Dal rumore sempre più vicino è chiaro che stanno aggiustando il tiro. I soldati più giovani sono tesi, altri ridono per scaricare la tensione. Un veterano ha la testa appoggiata al muro e sembra non farcela a sopportare la tensione. La prima granata che ci prende in pieno colpisce sopra una cella dove hanno rinchiuso un soldato ubriaco. Il rumore è fragoroso e il fumo ci avvolge seduti a terra per coprirci il più possibile dalle esplosioni. Aprono la porta della cella ed esce il prigioniero che barcolla e sanguina dalla testa, ma è vivo. Per noi e i soldati è il venerdì santo, di passione, nella guerra in Ucraina. Il colonnello scende nel corridoio-bunker e dà l'esempio, in piedi, in mezzo al fumo e alla polvere. Nessuna paura, rincuora i suoi uomini, ordina di controllare i danni e prendere posizione. Poco dopo arriva il secondo colpo devastante.
Un ferito spunta dal fumo come un fantasma. È completamente impolverato e butta sangue dalla bocca a ogni colpo di tosse. Ondeggia e viene aiutato dai commilitoni a camminare verso l'ala ancora intatta del bunker. Yuri ha la mano insanguinata e un altro soldato è ferito alla testa. Nessuno muore, ma le bombe continuano a cadere sull'unità di prima linea.
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