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Timori di rappresaglie talebane e i fornitori afghani chiedono aiuto all’Italia

Appello dei fornitori che hanno servito il contingente italiano: "Salvateci dai talebani". E intanto finisce l'Operazione Aquila che porta in Italia oltre 200 interpreti e le loro famiglie

Timori di rappresaglie talebane e i fornitori afghani chiedono aiuto all’Italia

"Buongiorno, siamo alcuni fornitori delle truppe italiane, che hanno servito a Camp Arena, in Afghanistan. Abbiamo bisogno del vostro aiuto”. Inizia così l’appello inviato al Giornale da negozianti e fornitori afghani che, per anni, sono stati al fianco dei nostri militari soddisfacendo piccole e grandi necessità. Dopo l’ammaina bandiera ad Herat, rischiano di finire nel mirino della vendetta talebana. Il 19 giugno intanto si è conclusa "l'Operazione Aquila", che ha portato al riparo in Italia gli afghani che nel ruolo di interpreti hanno collaborato in questi anni con il contingente militare italiano inserito nella missione Isaf e poi in quella denominata 'Resolute Support' in Afghanistan, una scelta doverosa sollecitata da una serie di articoli-denuncia del Giornale. Con gli interpreti, al sicuro anche i loro familiari. In tutto 270 persone. Questa mattina è atterrato a Fiumicino l'ultimo dei voli pianificati in proposito in questi ultimi 10 giorni dal Comando operativo interforze italiano, comandato dal generale Luciano Portolano, che ha portato in Italia il gruppo residuo delle persone da trasferire.

Non pochi amici afghani, però, rischiano di restare indietro. Circa cento famiglie che chiedono di venire trasferite in Italia “oppure in qualsiasi altro Paese europeo” come spiegano al Giornale. Collaboratori di serie B, che la Germania, però, ha deciso di inserire nelle liste di evacuazione come gli interpreti. Non si può escludere che qualcuno cerchi di approfittare della situazione e del “passaggio” in Italia, ma la Difesa e l’intelligence sono in grado di fare una cernita individuando chi rischia veramente la vita. Gli shopkeeper e fornitori sono terrorizzati da quanto potrebbe accadere non appena se ne andranno gli ultimi nostri soldati: “Per anni abbiamo equipaggiato le truppe della coalizione. Non avremmo mai pensato che un giorno gli italiani ci avrebbero abbandonati, completamente soli, davanti alla minaccia (dei talebani, ndr). La vita comincia ad essere molto difficile per noi e le nostre famiglie. Rischiamo di perdere le persone più care e i nostri figli”.

Una decina di giorni fa hanno manifestato pacificamente davanti all’ufficio dei Diritti umani ad Herat. Niente autorizzazione per farlo davanti a Camp Arena, la base italiana. I cartelli scritti in italiano non lasciano dubbi: “Salvate le nostre vite...Saremo uccisi per la cooperazione con voi….” sotto il Tricolore e il simbolo della Nato. Un lungo striscione sorretto dagli afghani esclusi dalla protezione è come un pugno nello stomaco: “Non è giustizia. Vi preghiamo di non lasciarci soli dopo vent’anni di collaborazione. Non vi abbiamo lasciati soli quando avevate bisogno di aiuto”. Per anni il loro contributo è stato importante, come racconta il colonnello Emanuele Biondini, che ha servito in Afghanistan: “Ricordo in particolare il titolare dell’impresa di costruzioni che ci forniva l’integrazione alla manovalanza per i lavori infrastrutturali all’interno di Camp Arena e faceva anche altri interventi nelle task force più vicine ad Herat. Era sempre disponibile e una persona di grande cuore. La speranza è che non subisca vendette…”. Il rischio è proprio questo per gli afghani dimenticati.

Una minaccia non nuova spiega Mario Mauro, ex ministro della Difesa italiano alla vigilia della prima grossa diminuzione del contingente: “Quando, nel 2013, ho incontrato ad Herat l’allora ministro della difesa afghano, Bismillah Khan, insieme al nostro omologo tedesco, Thomas de Maizière, mi disse: “Se andate via, portate con voi anche gli interpreti e tutti quelli che hanno collaborato con voi perché non saremo in grado di proteggerli’. Bismillah Khan ribadì “che i talebani avrebbero attaccato prima coloro che lavoravano con noi e poi le donne che avevano studiato”. Per ora sono arrivati a Fiumicino 82 afghani dei 270 collaboratori locali e relative famiglie già inseriti nella prima lista di evacuazione, che hanno operato spalla a spalla con i contingenti italiani. A parte alcuni casi di positivi al virus isolati a Roma gli altri sono stati smistati per la quarantena in strutture dell’esercito nel Sud Italia. Anche la Marina ha messo a disposizione alloggi nell’area logistica di Camigliatello Silano.

Il generale degli alpini, Giorgio Battisti, non più in servizio attivo, sottolinea che “il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, nell’annunciare i primi arrivi, ha anticipato che è in corso per altri 400 afghani l’accertamento per l’effettivo rapporto di collaborazione avuto con i nostri militari”. Da alto ufficiale ha conosciuto bene l’Afghanistan: “Anche se non sono collaboratori come gli interpreti, in corso di trasferimento in Italia, il loro contributo è stato molto apprezzato da tutti noi”. Da una parte l’importante supporto logistico di forniture e manovalanza. Dall’altra, per gli shopkeeper, “non si trattava solo della possibilità di acquistare oggetti ricordo e souvenir di quell’affascinante Paese, ma delle notizie di prima mano che anticipavano sulla situazione locale”. Battisti osserva che “nel corso del tempo, si sono instaurati solidi rapporti di amicizia che andavano ben oltre la fredda relazione economica. Portare anche loro in Italia sarebbe un’ulteriore dimostrazione dello spirito di accoglienza cristiana della nostra società e una grande soddisfazione per tutti i veterani dell’Afghanistan”. Soprattutto se non respingiamo i migranti illegali in arrivo da Libia o Tunisia e apriamo i porti alle nave delle Ong che ne sbarcano centinaia alla volta.


Della stessa opinione dell’ex generale, Mario Mauro: “Sarebbe bello che il governo fosse di manica larga con queste persone perché ci hanno affidato la loro vita”.

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