“Adesso parlo io”. Vojislav Šešelj, in esclusiva e senza filtri - così come eravamo abituati a conoscerlo quando negli anni Novanta arroventava il dibattito parlamentare coi suoi sermoni anti-occidentali -, commenta la recente sentenza di assoluzione dai nove capi d’accusa a suo carico. “Il solo verdetto possibile”, chiosa Šešelj scagionato dalle accuse di istigazione alla pulizia etnica e a commettere crimini contro l’umanità, emesso da un tribunale, quello dell’Aja, che l’icona degli ultranazionalisti serbi definisce “uno strumento politico che ha tentato in tutti i modi di provare la mia colpevolezza senza riuscirci”. Sono infatti trascorsi tredici anni da quando Šešelj si è consegnato spontaneamente alla giustizia internazionale dichiarando sin da subito la sua innocenza, tredici anni in attesa di esser giudicato, di cui dodici passati in una cella. Il leader però non ha rimpianti. “Non è stato tempo sprecato”, ha sottolineato il fondatore del Partito Radicale Serbo, “perché è valso a decretare la sconfitta di uno strumento di tirannia occidentale come l’Aja”. Sprezzante, affilato, caustico. Il teorico della Grande Serbia - entità territoriale che nei disegni del leader avrebbe abbracciato, oltre alla Serbia, anche Bosnia-Erzegovina, Croazia, Kosovo-Metochìa, Montenegro ed ex Repubblica Jugoslava di Macedonia - in tutti questi anni non ha mai perso la sua verve. Già nel 2014, quando gli venne diagnosticato un cancro al fegato che gli valse la libertà provvisoria, stupì con la sua intesa oratoria circa un migliaio di sostenitori accorsi a Zemun al grido di “vojo, vojo”. Provato dal carcere e dalla malattia, in occasione di un discorso pubblico, il “vojvoda cetnico” aveva lanciato la sua scomunica al presidente Tomislav Nikolic e al primo ministro Aleksander Vucic, giudicati da Šešelj alla stregua di “traditori del popolo serbo”, con la promessa di rovesciarli. A distanza di nemmeno due anni, la profezia di Sesilj si potrebbe avverare. La “vittoria”, come lui stesso ha definito la pronuncia assolutoria, infatti, seppur tardiva arriva con tempismo provvidenziale, ovvero, alla vigilia di una sfida elettorale, prevista per il 24 Aprile, destinata a rimescolare gli equilibri politici del Paese. “Dopo questa sentenza il consenso è in aumento, già prima eravamo una delle principali forze di opposizione, adesso mi aspetto di vincere”, ha commentato il leader che promette - nel caso in cui le sue previsioni si rivelino esatte - di rispettare il patto siglato con “il suo popolo” più di un anno fa. “Sconfiggere il regime di Vucic”, in primis, ma anche “interrompere qualsiasi forma di cooperazione con l’Unione Europea e la NATO, riportare finalmente il Kosovo alla Serbia e intensificare i rapporti con la Russia di Putin”, sono le priorità del suo programma politico. Non a caso, Šešelj ha scelto di festeggiare la sua assoluzione bruciando, insieme alla bandiera della NATO, anche quella dell’Unione Europea. “Si è trattato di un gesto simbolico con cui ho voluto provocare il Governo e i partiti filo-europei”, spiega, un gesto che non lascia spazio a fraintendimenti. La linea è quella di sempre, forse ancor più dura.“Entrare in Europa - ha infatti dichiarato Šešelj - sarebbe un suicidio per i serbi, inoltre, i legami culturali e economici che ci uniscono al popolo russo sono troppo forti e non sarebbe possibile immaginare il nostro Paese dalla parte di chi impone le sanzioni alla Russia”. Quella con la Federazione Russa è un’amicizia che Šešelj non intende tradire e che è ben testimoniata dal mancato riconoscimento da parte di quest’ultima dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, autoproclamata unilateralmente dal parlamento kosovaro nel 2008. Infine, anche sui temi del terrorismo e dell’immigrazione le posizioni restano nette e inclementi nei confronti di un’Europa considerata autodistruttiva, “vittima di sé stessa e delle politiche sbagliate adottate in Medio Oriente”. Šešelj è per la linea Orban.
“Sono dalla parte del primo ministro ungherese perché - spiega - noi serbi abbiamo conosciuto per primi la piaga del terrorismo durante la guerra di Bosnia, quando anche Osama Bin Laden venne a combattere qui, e seppure in questo momento la Serbia non è un bersaglio appetibile per i jihadisti, né una meta per gli immigrati, in futuro le cose possono sempre cambiare, anche qui c’è bisogno di un muro”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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