da Roma
A Enzo Monteleone, padovano, classe 1954, regista di film come Ormai e fatta! e di fiction tv come Il tunnel della libertà e Il capo dei capi, l'intervista di Michele Placido a la Repubblica non è andata giù. Si può capirlo. L'attore-regista pugliese sostiene che la serie su Totò Riina in onda su Canale 5 (anche giovedì un successo, con il 29.98% di share e oltre 7 milioni 700 mila spettatori) «è un buon prodotto, però sembra un film di Rosi fatto da falsari napoletani, perché né Rai né Mediaset possono permettere che si vada in profondità». Insomma, o racconti «la storia d'amicizia che viene dall'infanzia tra il buono e il cattivo», e quindi «mistifichi», o niente.
Replica Monteleone: «Non credo di aver taroccato niente. Proprio Rosi, sabato scorso, mi ha chiesto di mandargli il dvd di una puntata persa. È entusiasta della serie. Ricordo a Placido che in Romanzo criminale, rispetto al libro che fa nomi e cognomi, il suo Grande Vecchio non è nessuno. Un personaggio generico, allude senza spiegare. Magari gli girava così». Di sicuro non sarà stato contento Pietro Valsecchi, che con Placido ha appena prodotto per Mediaset le storie di Provenzano e Moro.
Il capo dei capi, girato a quattro mani con Alexis Sweet, sta spopolando. Partito col 27,10 per cento di share, ha raggiunto punte del 30-31, con un zoccolo duro di 7 milioni di spettatori. Strade vuote il giovedì sera in Sicilia, tutti davanti alla tv. Tuttavia il regista respinge le accuse di «mitizzazione». «Ricostruiamo cinquant'anni di storia italiana. Riina viene fuori come un terribile, furbissimo, spietato criminale che non rispetta i patti. Scalza i palermitani, a un certo punto si sente onnipotente. Come in una tragedia shakespeariana, alza sempre più il tiro fino ad arrivare alle stagioni delle stragi. Solo allora si decide di porre fine al suo regno».
Monteleone confessa una lacuna: «Di mafia sapevo quanto un italiano medio che legge i giornali. Le sottotrame, la massoneria, i giochi dei servizi segreti, il disegno complessivo mi erano sfuggiti. Prima di mettermi a girare ho fatto una full immersion, letto una decina di libri. Alla fine mi sono chiesto: in che mondo vivevo, cosa facevo in quegli anni?». L'altra sera erano di scena La Torre, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, la puntata si chiude col maxi-processo, quando pareva che la mafia fosse messa in ginocchio. Precisa Monteleone: «Ci siamo presi la libertà di fare nomi e cognomi, tirando in ballo tanti bei democristiani doc. So bene che Claudio Gioè viene fermato per strada a Palermo, come ai tempi della Piovra, quando Remo Girone era Tano Cariddi. Ma sfido chiunque a dimostrare che abbiamo reso mitici i corleonesi. Riina è una personcina che non mi piacerebbe conoscere. Ho solo cercato di entrare nel suo mondo, nella sua testa».
Ha funzionato. Infatti il vulcanico Valsecchi gli ha chiesto di girare subito un'altra serie, Squadra antimafia, ambientata oggi. «Ringrazio, ma ho rifiutato. Vorrei provare a fare dei film. L'ultimo, El Alamein, risale al 2002». Scotta l'esperienza di Fuoco amico, sul caso Sgrena-Calipari, al quale ha lavorato due anni. «Tutti ci hanno chiuso le porte in faccia. Ho il sospetto che Giuliana Sgrena stia antipatica. Perché s'è salvata, o forse perché è del manifesto e non del Corriere o di Repubblica. Gli americani fanno Un cuore grande su Daniel Pearl, noi no. Qui c'è la morte di Calipari ucciso dagli americani sulla via del ritorno, con l'ostaggio libero, c'è una storia di servizi segreti che si muovono a Bagdad in modo creativo, fantasioso. Probabile che prima o dopo girino un tv-movie su Calipari. Vedo già il titolo: Calipari, un eroe italiano. Sacrosanto. Però Fuoco amico non lo vuole nessuno».
Intanto ha pronti altri due progetti. Uno con Angelo Barbagallo, ex socio di Moretti: «Si svolge in Africa, è su un viaggio della speranza dal Sahara al Mediterraneo».
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