Con gli occhi Craig chiede scusa a se stesso. Guarda in camera appena prima di chiuderli: la morte in diretta televisiva, il suicidio assistito via satellite, arriva nelle case inglesi attraverso Sky e poi nel resto del mondo. Dicono l’abbia chiesto lui, Craig Ewert, vittima di un male incurabile: ha scelto di andare in Svizzera a morire in una clinica della morte, poi ha voluto che ci fosse la tv a riprenderlo. «È l’ultima volontà di un uomo coraggioso e coerente. Uno che vuole dimostrare che c’è la possibilità di morire diversamente, senza soffrire. Con dignità». Dignità: è questa la parola chiave. È una domanda che rimbalza guardando i fotogrammi della morte in diretta: è più dignitoso farsi accompagnare in pubblico o da soli? C’è differenza o no? Qui non c’è in ballo l’eutanasia, ma l’idea di rendere pubblica una scelta privata, di trasformare la fine della sofferenza in propaganda. Craig ha detto al mondo di voler farsi vedere con il medico per mostrare che c’è una strada alternativa al tormento fisico e psicologico: «Puoi morire sereno». Umano, comprensibile, rispettabile. Condivisibile, anche. Perché morire agonizzante se puoi farlo senza sofferenza fisica? Sapere di non avere speranza è una pena già difficile da sopportare, allora se c’è anche un solo modo di farlo con meno dolore possibile, prendilo, accettalo, sceglilo. Craig è stato dignitoso nella scelta di farsi aiutare a morire, però è diventato uno strumento di una campagna: mettere il suo volto di moribondo a disposizione della réclame della dolce morte. Dolce per chi? Nel chiuso di una stanza, con tua moglie accanto, con un medico in camice bianco, lasci tutti e ti addormenti. Forse è ipocrita, magari è carbonaro, ma è privato, intimo, personale. Non c’è nulla di più personale della morte procurata. I suicidi scrivono lettere che spiegano la scelta: vedere come se ne vanno non aggiunge niente alla loro pena. Dare a tutti il filmato della propria eutanasia allontana l’umanità della decisione di togliersi la vita, la trasforma in qualcosa di freddo, quasi di un esperimento.
Fa pensare, dicono. Sì, ma a che cosa? Alla tranquillità della morte? La tranquillità è anche sapere che ci sei tu con te stesso, che quel momento è completamente autonomo, non collettivo, non condiviso. Piergiorgio Welby chiedeva che gli fosse staccata la spina, non che qualcuno lo facesse quando c’era una telecamera accesa. Non si muore di più se c’è un led rosso acceso. Cesare Pavese si ammazzò e scrisse: «Non fate troppi pettegolezzi». Se qualcuno l’avesse visto mentre ingeriva le bustine di barbiturici, oggi sapremmo che faccia aveva, la sua ultima espressione, il suo terrore adrenalinico nello scolarsi la sua pozione mortale. I dettagli, cioè il pettegolezzo implicito, perché ogni piccolo particolare se ne trascina un altro, come una catena che si alimenta e banalizza tutto.
Allora mettersi di fronte ai riflettori lascia una strana sensazione, qualcosa di sospetto: fa pensare ai cinque minuti di popolarità a ogni costo di cui parlava Andy Warhol. Magari c’è buona fede, ma viene sorpassata dalla forza dell’apparenza. Ha il sapore di un reality macabro e forzato, dell’ultima frontiera della schiavitù dell’immagine. È come se Craig e chi gli ha consigliato la diretta della sua morte abbiano voluto dire al mondo che non stavano scherzando, che lui è morto davvero. Per questo l’ultimo fotogramma dei suoi occhi aperti sembra dire: «Ehi scusate, alla fine mi sa che ho sbagliato».
Una sceneggiatura fuorisincrono. Fino alla decisione della moglie di scrivere la cronaca della morte del marito per l’Independent. Minuto per minuto: così è morto il mio Craig. Come una partita. Come un gioco. Come una cosa lontana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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