Essendo nato (a Roma) nel 1908, Giovanni Mosca si ritrovò nelletà giusta per approfittare delle occasioni che il regime offriva ai giovani di buona volontà. I Littoriali, le collaborazioni ai quotidiani e ai settimanali, la consueta trafila, insomma, che costituì il cursus honorum per un paio di generazioni di intellettuali e che risulta disdicevole solo per quei pochi che a fascismo morto e sepolto non ebbero laccortezza di buttarsi a sinistra. Quando venne il tempo di rimboccarsi le maniche, Giovanni Mosca - Giovannino, ma il più delle volte Nanni, per gli amici - andò a insegnare agli alunni delle elementari della «Teresa Caracciolo», classe quinta, sezione C. Lì conobbe colei che sarebbe diventata sua moglie, Teresa, la «signora Teresa», con la quale divise l'intera vita e dalla quale ebbe tre figli: Benedetto, Maurizio e Paolo.
Linsegnamento e i corsi universitari che nel contempo frequentava non gli impedirono di coltivare il giornalismo. Ma siccome si sentiva poco portato a quello serioso di regime, preferì cimentarsi in quello scanzonato, lunico, ai tempi, che consentiva una certa libertà di pensiero e di parola. Come giornalista scanzonato, diciamo così, Giovanni Mosca esordisce, alla fine degli anni Trenta, nel MarcAurelio, settimanale satirico assai popolare e la cui incontinenza era occhiutamente tenuta sotto controllo dal Minculpop. Lì si fece un nome: scriveva (ancora non era passato alle vignette) con garbo e quel tanto di arguzia, talvolta mistificata nel paradosso, altre nellassurdo, che gli permetteva di far filtrare una goliardica fronda che mandava in sollucchero i lettori. Così fu che quando il grande Commenda, Angelo Rizzoli senior, decise di mettersi in concorrenza col MarcAurelio dando alle stampe quello che sarà il Bertoldo, siamo nel 1936, ne nominò direttore proprio Giovanni Mosca.
Fu un successo. Strepitoso. Mosca chiamò a far parte della redazione Giovannino Guareschi, Marcello Marchesi, Saul Steinberg, Carletto Manzoni, Vittorio Metz, solo per citare i più noti. Ma nonostante questo parterre de roi, fu lui, Mosca, a dare un inconfondibile timbro al giornale. Nel quale esordì anche come vignettista, facendo diventare subito familiari i suoi omini con la barba, in redingote e calzoni a righe, le sue donnone tutto seno e sederone. Per Giovanni Mosca fare satira era innanzitutto sbriciolare, ridicolizzandoli, i luoghi comuni. Il «fondo» del primo numero, 14 luglio 1936, scritto di pugno da Mosca, era costituito da un dialogo fra Bertoldo e il Barone. Barone: «Comè il funzionario?». Bertoldo: «Solerte e attivo». Barone: «E il film?». Bertoldo: «Lultimo capolavoro della stagione». Barone: «Comè la fibra dellillustre infermo?». Bertoldo: «Forte e resistente». Barone: «Ma i reiterati attacchi del morbo?». Bertoldo: «Finiscono col prevalere...». Nei ricordi di Mosca il Bertoldo «fu un giornale che prese subito i giovani. Lo rendeva interessante il fatto stesso che si staccasse completamente dal linguaggio dei quotidiani fatto pressa poco delle medesime frasi obbligate e dei medesimi luoghi comuni coniati allora dalla retorica fascista e oggi da quella antifascista». Per Montanelli, che di Nanni fu amico, «Mosca sorrideva, rideva e faceva sorridere e ridere. Ma non sghignazzava mai. Non era nel suo stile di liberale, sempre dalla parte del buon senso e della misura. Fu proprio per differenziarsi dalla pubblicistica cosiddetta «impegnata» che Mosca accentuò la sua vena deamicisiana che qualcuno scambiò per qualunquismo. Fu, sempre e inesorabilmente, contro le mode e le infatuazioni del momento».
Furono i tedeschi - assai poco sensibili allumorismo - a chiudere, nel 1943, il Bertoldo. Mosca si appartò a Pallanza, per tornare in campo due anni dopo fondando, assieme a Guareschi, il Candido. Non erano però fatti luno per laltro e la crisi scoppiò nellaprile del 48, uno dei momenti più caldi della vita politica italiana, quando il Paese fu chiamato a scegliere fra la Dc (e lOccidente, e lAmerica) e il Pci (e lUnione Sovietica, e il comunismo). Il Candido era naturalmente in primissima linea contro il Fronte nazionale, ma al suo interno Guareschi e Mosca non si trovarono daccordo sul linguaggio da tenere. Diamo ancora una volta la parola a Indro: «Quello dellaprile 1948 fu un momento molto più adatto al sanguigno, massiccio, aggressivo Guareschi che non al morbido, moderato, ma molto meno efficace Mosca. Non fu lestetica a decidere la gara - mai diventata animosità - fra i due. Solo che la voce di Guareschi aveva parecchi decibel più di quella di Mosca». Rifiutandosi di alzarla, la voce, Mosca preferì lasciare il giornale che pure aveva fondato. Renato Angiolillo gli affidò allora la direzione duna edizione milanese del Tempo, del quale era editore e direttore. Ma non funzionò: troppo forte era il predominio del Corriere che tuttavia, non volendo lasciarselo sfuggire, chiamò Mosca a dirigere Il Corriere dei Piccoli.
Entrato nel «giro» di via Solferino, Giovanni Mosca poté dar sfogo a tutto il suo talento di umorista, elzevirista e di critico teatrale per il Corriere e di vignettista per la sua edizione pomeridiana, il Corriere dInformazione. Presto tornarono familiari i suoi omini, che potevano chiamarsi Signor Ulderico, Bellotti Bon, Cavalier Ambrogio Vitali, Brunacci Bonamonti, o professor Celiomontanus. Così come le sue battute che si dibattevano fra garbo e indisciplina, tra provocazione e buon senso (e talvolta un ictus surreale: «Bambini, se sarete buoni, domenica vi porterò a veder morire il nonno»). «Io sono il cantore delle piccole cose - diceva di sé - delle cose di tutti i giorni, talmente comuni a tutti da tenerci uniti come un gruppo di amici». E così è stato. Lasciato il Corriere un minuto dopo lingresso di Piero Ottone, Giovanni Mosca passò al Tempo, dove emigrò con i suoi cavalier Ambrogio e i suoi corsivi dolci e urticanti. «Usava lumorismo, lironia, la beffa - scrisse di lui Geno Pampaloni - come scorciatoie per esprimere una vibrazione, uno sdegno, una partecipazione morale; scorciatoie di artista, naturalmente, che avevano talora la fulminea incandescenza, il lampo inaspettato e decisivo del cortocircuito con la verità».
Vecchio signore, gentile e di ottime maniere, attentissimo al decoro personale, Mosca ebbe a soffrire nei suoi ultimi anni. «Ma poi - scrisse in Appuntamento con Mosca - che cosa sono gli anni se il giorno in cui li compi basta un soffio sulle candeline per spegnerle tutte? Viene il giorno, però, in cui non si ha più il fiato necessario.
Paolo Granzotto
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