Le multinazionali ora stanno con i Verdi

La vera sorpresa del vertice di Copenaghen? Sarà veder nuotare nello stesso mare, mano nella mano, anzi pinna nella pinna, squali della finanza e difensori delle balene. Forse è il segno che hanno vinto loro, i pasdaran dell’ambientalismo che una volta assaltavano le sedi delle multinazionali, perfide inquinatrici. Oppure è l’esatto contrario: sono gli ambientalisti a essere diventati strumento dei grandi interessi economici. Sta di fatto che mai come oggi, alla vigilia dell’attesissimo vertice, i colossi dell’economia tifano perché i grandi del mondo impongano severi limiti alle emissioni di anidride carbonica. Non per niente tra gli sponsor del summit c’è Cisco, leader mondiale delle tecnologie Internet per le aziende, mica la Fattoria Scaldasole.
E Barack Obama e gli altri convitati in Danimarca oggi troveranno sul loro tavolo una lettera perentoria: «Chiediamo ai leader del mondo di raggiungere un accordo globale sui cambiamenti climatici che sia ambizioso, robusto e giusto e che dia una risposta credibile alla crisi che il mondo ha davanti». La firma in calce non è del presidente di Greenpeace o di Bono Vox, ma di 500 top manager di grandi aziende di tutto il mondo, incluse Nike, Virgin e i petrolieri americani di Chevron.
Il fatto è che la battaglia contro il riscaldamento globale ormai si misura non solo in gradi di temperatura del pianeta, ma anche in dollari: quelli del crescente giro d’affari della cosiddetta «Green economy». La svolta definitiva l’ha certamente data Obama, quando ha lanciato in pompa magna l’Economic recovery plan, il piano di uscita dalla crisi finanziaria che ha oscurato il sole dell’economia mondiale per due anni. Al centro dei piani del presidente americano, c’è proprio la riconversione ad attività «verdi» come motore di una nuova ondata di sviluppo. E non si tratta solo di proclami, il governo americano mette sul piatto anche i soldi. Del resto già George W. Bush aveva dato una forte spinta, ad esempio, al settore dei biocarburanti, lanciando il piano per l’indipendenza degli Usa dal petrolio e scatenando una corsa alla riconversione delle colture agricole al bioetanolo. Con le dichiarazioni di Obama, chi tra le grandi aziende non aveva ancora capito da che parte tirava il vento, oggi si sta adeguando. È il mercato, bellezza. Meglio se un mercato che gode di sempre maggiori sovvenzioni pubbliche, come quelle che hanno fatto fare in Italia un balzo in avanti al fotovoltaico e scatenato una vera colonizzazione di pale eoliche in Sicilia. Naturalmente la manna verde che si prepara a scendere dal cielo non cadrà in tutte le tasche in modo uguale. Ci sono settori produttivi più tradizionali che faranno fatica a riconvertirsi. Ed ecco perché, come ha testimoniato ieri sul Giornale il presidente di Federchimica, Giorgio Squinzi, ci sono aziende molto preoccupate per gli esiti del vertice danese. Altre invece si preparano ad azionare il registratore di cassa. Già nel 2008, secondo uno studio di Nomisma Energia, la sola green economy italiana ha fatturato 5,2 miliardi di euro. Non per niente tra i firmatari del «Copenaghen Communiqué», il documento voluto dal principe Carlo d’Inghilterra e firmato da 500 aziende, c’è anche Telecom Italia.
Si stima che entro il 2020 il settore creerà 2,8 milioni di posti di lavoro, 550mila solo in Europa. Ecco perché tante aziende si tingono di verde e suonano le sirene del marketing del biologico. A Copenaghen, insieme ai politici, in prima fila ci saranno quindi anche tutte le grandi case automobilistiche che producono vetture elettriche o ibride. E perfino un gigante della chimica come Dow Chemical.

O gli assicuratori di Allianz, che da poco hanno stretto un accordo con il Wwf. Qualche veterano delle lotte ambientaliste timidamente fa notare che c’è un po’ troppo green washing (aziende che di verde hanno solo l’immagine). Voci che saranno zittite.

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