Nato, un’occasione da non sprecare

Livio Caputo

Un paio di settimane fa il generale Abizaid, comandante supremo delle forze americane in Medio Oriente e uomo poco aduso alle iperboli, ha destato scalpore annunciando che la Terza guerra mondiale è ormai una realtà. Una guerra asimmetrica, contro tanti avversari magari neppure in collegamento tra loro, come i Talebani dell’Afghanistan, i terroristi di Hamas o le Corti islamiche della Somalia, ma uniti dal medesimo scopo: sconfiggere la civiltà giudaico-cristiana e, almeno nei sogni di Bin Laden, fare rinascere il Califfato instaurando ovunque possibile il dominio dell’Islam.
In teoria, le parole di Abizaid dovrebbero dominare il vertice dell’Alleanza atlantica in programma oggi e domani a Riga, con lo stimolante programma di «Trasformare la Nato nella nuova era globale»: ora che Urss e blocco comunista non esistono più (anche se la recente deriva autoritaria e omicida di Putin possa far temere, specie nell’Europa orientale, una rinnovata minaccia dall’Est e qualcuno solleverà certamente l’argomento), l’emergere di un nuovo nemico potrebbe, sotto certi aspetti, diventare un prezioso collante per una alleanza che, ultimamente, ha visto una progressiva diminuzione della coesione tra gli Stati membri e manca di idee chiare sul proprio futuro. In pratica, l’impegno della Nato contro il fondamentalismo islamico sarà un tema abbastanza marginale della Conferenza e potrebbe addirittura diventare oggetto di una acrimoniosa discussione. Proprio in Afghanistan, unico Paese dove è direttamente impegnata nella lotta al terrorismo, l’Alleanza sta infatti mettendo in evidenza le sue crepe: mentre i soldati britannici, canadesi, americani e olandesi, cui sono state affidate le province sud-orientali, sono impegnati in continui e sanguinosi combattimenti contro i Talebani, con perdite umane non indifferenti, le truppe di altri Paesi partecipanti, tra cui Italia, Germania e Francia, si limitano per ragioni di politica interna a presidiare le rispettive (e molto meno pericolose) zone di competenza, senza prestare alcun aiuto agli altri. Una recente richiesta di rinforzi del Segretario generale è caduta nel vuoto, sia perché non c’è accordo sulla strategia da adottare, sia perché, pur riconoscendo che una vittoria dei Talebani sarebbe un disastro per tutti, nessun Paese ha voglia di mettere la vita dei propri uomini a repentaglio su un fronte così remoto.
Per quanto uno dei documenti preparati per il vertice individui proprio nel terrorismo e nella diffusione delle armi di distruzione di massa le principali minacce per il prossimo decennio, per quanto ci sia una intesa di massima che la ben oliata struttura militare dell’Alleanza possa e debba ormai essere impiegata anche fuori dal suo originario campo d’azione, i capi di Stato e di governo che stanno per riunirsi in Lettonia non sembrano capaci di accordarsi su un progetto organico di trasformazione. Una volta, quando la ragione sociale dell’Alleanza era di fronteggiare l’Urss e i suoi alleati, nessuno metteva in discussione l’egemonia degli Stati Uniti, perché dal loro «ombrello nucleare» dipendeva la sicurezza di tutti. Oggi, pur avendo ancora una enorme superiorità militare sugli alleati, gli americani non sono più in grado di imporre loro la propria volontà politica. Per esempio, essi vorrebbero accelerare la costituzione di un Corpo di rapido intervento di 20.000 uomini, da impiegare in qualsiasi parte del mondo; vorrebbero creare uno stretto collegamento tra la Nato e altri Paesi del «blocco occidentale», come Australia, Giappone, Nuova Zelanda; vorrebbero snellire il processo decisionale, in modo da potere contare sul sostegno dell’Alleanza quando ci siano nuove minacce da fronteggiare. Ma i Paesi europei, che hanno in progetto di affiancare una propria forza armata a quella della Nato e non vogliono che questa venga coinvolta in imprese made in Washington (in Irak, per esempio, l’Alleanza ha solo un modesto ruolo nell’addestramento del nuovo esercito) oppongono una sorda resistenza. La Francia, come al solito, ha preso la testa del fronte del no ed impedirà che le proposte americane ottengano la unanimità prevista dai trattati.


Salvo sorprese, un vertice che avrebbe potuto, e in un certo senso dovuto, rappresentare una svolta rischia perciò di ridursi a un affare di routine: Abizaid, e quelli che la pensano come lui, dovranno aspettare la prossima occasione.

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