Naufragio dell’utopia francese

Un filo grigio unisce in Francia le rivolte degli studenti, le recenti devastazioni delle banlieue incendiate dagli extracomunitari e la bocciatura della Costituzione europea sancita su un terreno rigorosamente istituzionale. È il grigiore della politica nella nazione che ha inventato la politica, suggerendo i temi politici agli Stati europei. Karl Marx spiegava che la Germania aveva dato le origini alla filosofia moderna, l’Inghilterra le origini all’economia moderna, la Francia quelle alla politica moderna.
Il luogo che tradizionalmente ha costruito la politica, che si è inventato la destra e la sinistra dell’ideologia temporanea, i fronti popolari, le prefetture e ogni altra forma e struttura con cui è stata costituita l’architettura della politica, questo luogo - la Francia - non produce più politica. Gli studenti in rivolta, le banlieue incendiate, gli euroscettici che non vogliono la Costituzione ci dicono tutti la stessa cosa: non c’è più speranza, quella speranza che è alla base della costruzione del più elementare progetto politico.
In quelle proteste, violente o istituzionalmente corrette, non c’è nessuna idealità, nessuna proposta, nessun sogno che suggerisca un’altra visione del mondo, una politica per l’avvenire. Anche nelle rivolte studentesche più violente, si sente tra il fumo degli incendi l’odore della burocrazia: mutua, scatti di anzianità, bollini per la pensione.
Nel ’68 si fronteggiavano due sogni che stavano alla base di due imponenti politiche. Da un lato De Gaulle e la sua idea della grandeur nazionalistica francese, dall’altro il movimento comunista internazionale con il suo antiamericanismo, con l’esaltazione del Vietnam, di Cuba e di Che Guevara. Si fronteggiavano grandi intellettuali che sostenevano culture differenti a fondamento di politiche differenti: per esempio, André Malreaux e Jean-Paul Sartre. E la società cresceva attraverso la discussione delle idee, attraverso i partiti e i movimenti. C’erano vincitori e vinti, perché c’erano maggioranze e minoranze che facevano riferimento a diverse valutazioni della realtà, a diverse speranze.
La grande utopia degli anni Novanta è stata la costruzione dell’Europa unita. Progetto grandioso che si è creduto di potere realizzare attraverso pratiche burocratiche timbrate a Bruxelles. Quando ci si affida a costruzioni astratte, la politica non c’è più. E la Francia, Paese in cui per tradizione il termometro della politica è il più sensibile, registra drammaticamente cosa significhi per un popolo vivere senza speranza e cosa significhi governare una società affrontandone i problemi con qualche atto amministrativo talvolta sostenuto dalla burocrazia di Bruxelles, talvolta da quella dell’Eliseo. Così si pensa che, accontentando sia gli europeisti fanatici elitari, sia i nazionalisti trincerati nel loro illusorio isolazionismo, si dia concretezza all’utopia dell’Europa unita.
Nella storia moderna la Francia ha dato l’impronta alla politica europea. Ora sta mostrando le conseguenze della non-politica, della sterilizzazione della speranza nella società. In tono dimesso, non così drammatico, almeno per ora, l’Italia vive una situazione analoga. Prodi, per le sue recenti responsabilità europee, è l’esempio del difensore e sostenitore di un’Europa che non c’è, colui che ha fatto dell’Unione europea un’occasione di propaganda, dando per risolto il problema fondamentale della politica del nostro tempo. E quando si crede che atti amministrativi e burocratici possano risolvere la complessità del rapporto tra culture nazionali e realtà istituzionali europee, significa mettere una pietra tombale sulla politica.

D’altra parte, questa stessa mentalità Prodi l’ha portata in Italia, pensando di unire, attraverso l’atto burocratico della firma sotto un documento chiamato programma del centrosinistra, sindacati e confindustria, cattolici, laici integralisti, no global. Tutti nella stessa polpetta in cui si annullano le differenze di cultura, si deridono le speranze, si distrugge la politica.

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