Se c'è un momento preciso in cui una classe dirigente rivela tutta la propria inadeguatezza è l’inizio della pandemia Covid, quando mentre il virus avanzava silenzioso verso l’Europa, il nostro Paese sceglieva di spedire 18 tonnellate di mascherine alla Cina, lasciando scoperti ospedali, medici e cittadini.
Non una leggerezza, non una svista: una decisione politica gravissima, figlia di un’impostazione ideologica che anteponeva la diplomazia all’interesse nazionale. Oggi, grazie ai lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid-19, quella scelta torna a galla in tutta la sua drammaticità. E lo fa non come episodio marginale, ma come simbolo di un fallimento politico e istituzionale, consumato nelle settimane in cui l’Italia avrebbe dovuto prepararsi al peggio e invece preferì guardare altrove.
Ci siamo riascoltati la seduta del 17 novembre 2025, quando la Commissione ha ascoltato la testimonianza di Tiziana Coccoluto, magistrato ed ex vicecapo di Gabinetto del ministro della Salute, Roberto Speranza. In questo contesto, la Coccoluto è stata chiamata a ricostruire come maturò la decisione di donare dispositivi di protezione individuale alla Cina nel febbraio 2020. La sua affermazione è stata tanto chiara quanto inquietante: «C’era un obbligo di collaborazione con la Cina che si è voluto realizzare in questo modo».
Una frase che, da sola, smonta anni di narrazione autoassolutoria. Perché introduce un concetto che nessuno aveva mai spiegato fino in fondo: l’esistenza di un presunto vincolo politico-diplomatico tale da giustificare la rinuncia a scorte strategiche fondamentali per la sicurezza nazionale. Ma quale obbligo? Sancito da chi? Con quali atti formali? E soprattutto: perché quell’obbligo doveva prevalere sulla tutela degli interessi nazionali dell’Italia e della salute degli italiani? L’ex vicecapo di gabinetto di Speranza ha confermato in commissione Covid che il governo Conte era supino alla Cina, a scapito della sicurezza nazionale e della salute degli italiani.
Di quella consegna di mascherine si fece lustro l'allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio. È sotto la sua guida che la Farnesina gestiva i rapporti con Pechino, in una fase già segnata dalla firma del Memorandum sulla Via della Seta e da una linea di marcata apertura verso la Cina. Pensare che una donazione di 18 tonnellate di mascherine, dal fortissimo valore simbolico e strategico, sia avvenuta senza un coinvolgimento diretto del governo e di Palazzo Chigi, oltre che ministero degli Esteri è semplicemente inverosimile.
Quella scelta si inseriva in una precisa impostazione politica, che mirava a rafforzare il rapporto con Pechino, da
cui avremmo comprato mascherine farlocche, strapagate per favorire mediatori amici. Un business lucroso che ha arricchito pochi, mentre migliaia di italiani nella Bergamasca e in tutto il Paese morivano come mosche.