Nelle carte le prove e i testimoni che inchiodano il killer in fuga

La prova provata che Cesare Battisti non è l’agnello sacrificale di una giustizia sommaria è nelle carte dei processi. «Nessuno - nota il giudice Guido Salvini - ha mai cercato di intraprendere la strada della revisione delle sentenze di condanna, perché queste sentenze sono granitiche. Inattaccabili. Insuperabili». Salvini ha scandagliato a lungo il mondo dell’eversione di sinistra e ha raccolto molti elementi sui Proletari armati per il comunismo, una delle tante meteore di quella stagione di sangue, ma anche, aggiunge il magistrato, «una formazione screditata, mal tollerata dagli altri gruppi eversivi».
I Pac erano formati da poche persone. «Meno di venti», spiega Salvini. Quando il gruppo, casereccio, si squagliò, si pentirono o si dissociarono quasi tutti e ciascuno per la sua parte parlò di Battisti. Parlò di Battisti Sante Fatone, parlò di Battisti Giuseppe Memeo, quello che spara a gambe divaricate in via De Amicis il giorno della morte di Antonio Custra e diventa l’icona degli anni di piombo. Parlò di Battisti Diego Giacomini e ne parlò anche Arrigo Cavallina, «l’ideologo dei Pac, colui che aveva arruolato alla causa il giovane Battisti, detenuto in carcere per reati comuni». Naturalmente, parlò di Battisti anche Pietro Mutti, il pentito principe dei Pac.
I verbali, gli interrogatori, le sentenze non lasciano zone d’ombra. Si sa tutto, per quel che ragionevolmente si deve sapere, di quella sventurata banda di periferia che con ali piccole sognava in grande. La composizione dei Pac, le armi a disposizione, le riunioni preparatorie dei delitti, le motivazioni. E le responsabilità individuali. Battisti è il killer che il 6 giugno 1978 ammazza il capo delle guardie carcerarie di Udine Antonio Santoro, Battisti è il killer dell’agente della Digos Andrea Campagna, ucciso a Milano, alla Barona, il 19 aprile 1979.
Il 16 febbraio 1979 i Pac colpiscono due volte in simultanea: a Milano un commando uccide l’orefice Pierluigi Torregiani, a Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia, i terroristi ammazzano il macellaio Lino Sabbadin. A sparare è Giacomini, aiutato da Cavallina. Nel negozio entra però anche Battisti. Ecco, se c’è un delitto a cui materialmente non ha partecipato è quello più famoso, avvenuto a Milano, e concluso, tragedia nella tragedia, con il ferimento del figlio di Torregiani, Alberto, da allora su una sedia a rotelle. Più tardi, i milanesi chiamano Battisti per accertarsi che anche l’obiettivo veneto sia stato colpito. Battisti conferma, i milanesi diffondono la rivendicazione: quella altrettanto celebre che inneggia alla morte del «porco Torregiani», eliminato perché qualche settimana prima aveva ucciso un rapinatore.
Battisti può dirsi vittima di un complotto, delle farneticazioni di questo o quel pentito, di una giustizia vendicativa, ma tutti gli altri ex dei Pac raccontano un’altra storia. Hanno accettato i verdetti, hanno scontato la pena, si sono rifatti una vita. «Non dimentichiamo - aggiunge Salvini - che per l’omicidio Campagna abbiamo anche la testimonianza del suocero che assistette all’esecuzione dell’agente. Il suocero descrive analiticamente il killer: Battisti. Dopo il suo arresto, fu chiesto a Battisti di sottoporsi a un confronto con l’anziano testimone, ma lui rifiutò categoricamente. Quindi evase dal carcere, facendo perdere le proprie tracce».
Non ci sono misteri nella storia breve e feroce dei Pac. E diventa arduo anche esercitarsi nell’arte della dietrologia, pure così coltivata per le Brigate rosse. La vicenda dei Pac si risolve in quei quattro omicidi, compiuti da un pugno di uomini. Oltre non si può andare. C’è solo quella violenza insensata, riverniciata malamente con i colori dell’eversione. L’autodifesa ostinata di Battisti è comprensibile.

È incredibile, invece, che gli siano andate dietro personalità della cultura e della politica, specialmente in Francia. Hanno creato un mito. Ora resta l’uomo. Disperato. Perché costretto a fare i conti con un passato che oggi è davvero remoto.

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