Politica

Il nemico invisibile

La guerra con l’Iran è già cominciata, ma è sporca, sotterranea, talvolta indiretta. Vede schierati sullo stesso fronte gli Stati Uniti, i Paesi arabi sunniti e Israele. Non è un’alleanza, ma una convergenza di interessi per arginare un Paese che non nasconde più la propria ambizione: diventare una delle potenze egemoni in Medio Oriente e che nel realizzare i propri piani si è dimostrato più scaltro di quanto l’Occidente sia disposto ad ammettere.
Il presidente Ahmadinejad è un fanatico, un antisemita, un irresponsabile, per qualcuno forse addirittura un pazzo. Lo abbiamo scritto tante volte. Ma quale sia davvero il suo potere a Teheran nessuno lo sa. È poco probabile che sia lui ad elaborare le strategie di politica estera, rivelatesi finora sofisticate. Dietro le quinte qualcuno pensa e anche bene.
Nel 2001 Teheran è rimasta quieta quando gli americani hanno rimosso i talebani da Kabul. Missione sacrosanta quella di Washington, ma con una conseguenza all’epoca da tutti sottovalutata. Il primo beneficiario di un Afghanistan liberato erano gli ayatollah iraniani, per i quali il fondamentalismo sunnita del Mullah Omar costituiva un nemico più pericoloso di quello rappresentato dal Grande Satana americano.
Nella primavera 2003 Teheran ha dato, segretamente, il proprio assenso all’invasione statunitense contro Saddam Hussein; poi ha saputo aspettare. Quando ha capito che Bush non era in grado di controllare il Paese ha contribuito a farlo precipitare nella guerra civile. Intanto gli iraniani acceleravano il programma nucleare illudendo gli europei sulla propria volontà negoziale, aiutavano i protetti di Hamas a vincere le elezioni in Palestina e poi gli Hezbollah a sfidare Israele in Libano. Alla fine del 2006, gli strateghi del governo americano ammettevano, a malincuore, che l’Iran era l’unica potenza della regione ad essersi rafforzata dalla guerra al terrorismo intrapresa da Bush dopo l’11 settembre.
Nel gennaio 2007, però, la situazione è cambiata e non solo perché i neoconservatori hanno perso influenza all’interno dell’Amministrazione Usa. A risvegliarsi sono stati i Paesi arabi, che per la maggior parte sono sunniti, mentre gli iraniani sono sciiti. E in un mondo che continua a vivere con disagio la modernità, gli scismi dottrinali contano come quelli che un tempo in Europa opponevano i cattolici ai protestanti. Oggi da noi una guerra tra cristiani è inimmaginabile, tranne forse in un’Irlanda del Nord ancora avvelenata dall’odio. Ma nell’Islam la frattura tra le due correnti è, da secoli, insanabile. E la prospettiva che la minoranza sciita rappresentata dall’Iran possa estendere la propria influenza in Medio Oriente è ritenuta inaccettabile dalla Giordania, dall’Egitto e, soprattutto, dall’Arabia Saudita; per motivi religiosi prima ancora che politici.
Quei Paesi dovevano reagire, come d’altronde l’America e Israele, ossessionato dall’incubo di un Iran atomico. Allora ecco prendere forma l’anomala intesa cristiano-sunnita-ebraica e, con essa, una controffensiva cinica e persuasiva. Washington, d’accordo con Gerusalemme, ha riscoperto il valore dell’intelligence. In pochi mesi uno scienziato iraniano impegnato nel programma nucleare è stato ucciso, un colonnello e i suoi tredici uomini scomparsi nel nulla, un diplomatico di Teheran rapito a Bagdad. Tre a zero, mentre l’Arabia Saudita faceva valere il suo peso obbligando Hamas e Fatah a varare un governo di unità nazionale in Palestina e dunque dimostrando di contare più degli iraniani a Gaza e in Cisgiordania.
Ci si attendeva una risposta da parte degli iraniani. Qualcuno ha pensato di individuarla in un misterioso assalto a una base statunitense in Irak, conclusa con la morte di cinque soldati Usa. Probabilmente era solo un assaggio. Il sequestro di venerdì dei 15 marinai nelle acque territoriali nello stretto di Shatt al-Arab è più di una provocazione. È l’attesa replica al Mossad, ai servizi segreti britannici, alla Cia; spettacolare ed emblematica, perché condotta alla vigilia di nuove sanzioni dell’Onu contro i programmi atomici di Teheran. Una vicenda analoga nel 2004 venne usata a fini propagandistici e si concluse rapidamente. Ma ora la situazione è più intricata. Quei 15 militari rischiano di restare a lungo nelle celle iraniane. Di certo non finisce qui: il conflitto invisibile è appena iniziato.
Marcello Foa
marcello.

foa@ilgiornale.it

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