Nessuno tocchi "Fratelli d’Italia"

Gran buon segno che la sinistra sinceramente democratica e il partito di Repubblica siano insorti per l’oltraggio alla nazione che si diceva perpetrato a Fanzolo di Vedelago (città martire?). Vero niente, pare proprio che nell’operoso centro abitato in quel di Treviso, l’Inno di Mameli sia stato debitamente eseguito: ma siccome è d’obbligo vigilare, basta il sospetto. E dunque a mano manca s’è levato il grido: «Giù le mani da Mameli!», cosa che naturalmente a noi fa molto piacere, ma desta anche un certo stupore perché la sinistra la si sapeva piuttosto incline a Bella ciao (cantata - come poter dimenticarlo? - in diretta tivvù a petto in fuori e ciglio umido da Michele Santoro, un patriota; e mi par di ricordare anche da quella mammola, da quella santarellina infilzata di Fabio Fazio). O alle struggenti melodie tardi anni Sessanta. Al Lingotto, all’apertura del congresso del rinnovamento e della revanche del Partito democratico, non s’udirono le note incalzanti di Fratelli d’Italia, ma quelle dei Procol Harum e del loro A whiter shade of pale (comunque sempre meglio del Bandiera rossa delle adunate del Pci). Bene così: da sempre allergici al tricolore, all’inno nazionale e al patriottismo - roba fascista, tritume nazionalistico -, i progressisti scendono oggi in campo per difenderne i valori. Malauguratamente esagerando nei toni e nei modi: facendola cioè fuori dal vaso, come gli capita abitualmente perché gratta gratta esce fuori sempre la loro anima giacobina e dunque smodata e intemperante. Su un fatto comunque non si discute: la sinistra lo scopre ora, ma Fratelli d’Italia o, meglio, il Canto degli italiani è riconosciuto e amato come inno nazionale. Alle sue note ci si alza in piedi. Ci si cava il cappello. Volendo imitare gli americani (per i quali ogni occasione è buona per intonare The star spangled banner e issare la bandiera a stelle e strisce) ci si può mettere anche la mano destra sul cuore. Quello è l’inno e quello resta. Non tema dunque la sinistra che ci sia un complotto per mettergli la sordina o, peggio che mai, per sostituirlo con altra musica.
Ciò chiarito, nulla vieta di dire che non è un granché, che è ampolloso e retorico nel testo (anche se in quanto a retorica, la Marsigliese batte tutti) e che la musica, quel ritmo a metà fra la marcetta e l’operetta, lascia assai a desiderare. C’è chi gli preferirebbe, in via ipotetica ovviamente, il Va’ pensiero. Ignazio La Russa - che in occasione del sedicente vulnus di Fanzolo di Vedelago ha avuto la meritevole e sottoscrivibile idea di disciplinare il ricorso all’inno nazionale così come è disciplinata l’esposizione del tricolore - sostiene addirittura che il coro verdiano «è perfino più patriottico dell’Inno di Mameli». Mah. Musica di straordinaria bellezza, però le parole... Se qualcuno sorride all’«Elmo di Scipio» difficilmente resterebbe serio cantando in coro, magari mentre sventolala il tricolore, «Arpa d’or dei fatidici vati/ perché muta dal salice pendi»? Oppure: «Ove olezzano tiepide e molli/ l’aure dolci del suolo natal»? Che oltretutto non è il Bel Paese. La patria «si bella e perduta» mestamente invocata dal coro del Nabucco è la terra promessa degli ebrei, quella che include le rive del Giordano e «di Sion le torri atterrate». Che poi, da un sondaggio di qualche tempo fa, è venuto fuori che la maggioranza (statistica) degli italiani vorrebbe come inno nazionale «Azzurro», la canzonetta di Paolo Conte resa popolare da Adriano Celentano. Ragion di più per rendere Fratelli d’Italia, adottato dai padri costituenti come provvisorio e ancora tale, oltre che disciplinato anche insindacabilmente ufficiale e definitivo.

(Un consiglio non richiesto: sarebbe opportuno che dopo la prima pagina di fuoco per il sedicente oltraggio alla nazione consumato a Fanzolo di Vedelago e per confermare nei fatti che il patriottismo è di casa in Largo Fochetti, lo stato maggiore della Repubblica intonasse, prima di dar corso alla riunione di , l’Inno di Mameli).

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