No ai salvataggi, sì ai controlli e alle garanzie

Quando qualcosa va storto lo sport più facile (e inutile) è cercare il colpevole: metri cubi di carta sprecata per scrivere che se i derivati fossero stati regolamentati per tempo da Tizio, o che se i mutui americani non fossero stati incentivati nel 1999 da Caio, non saremmo nel ginepraio in cui l’economia mondiale si è andata a cacciare. Questi dibattiti hanno un che di surreale: è come se un medico, di fronte ad un paziente in arresto cardiaco, perdesse tempo a fargli la paternale perché fumava troppo o mangiava disordinatamente. Purtroppo non si tratta di un’immagine forzata: la maggior parte di noi non si sta rendendo conto del disastro che è in corso. Si pensa forse che si tratti di una cosa limitata alla grande speculazione o alle banche d’affari, non immaginando le conseguenze di un protrarsi della situazione attuale. Il fatto è che siamo in un’economia che si basa sul debito, e se dovesse venir definitivamente meno la fiducia e nessuno prestasse più denaro sarebbe una carneficina: il debito esistente non potrebbe essere nè rinnovato nè rimborsato, con fallimenti a catena, zero mutui, zero risparmi e rischio di iperinflazione con denaro equivalente a carta straccia, stile Germania anni ’20.
Bisogna quindi muoversi, e subito. Da un anno a questa parte si è andati avanti per tentativi senza affrontare alla radice il problema, fino ad arrivare al fallimento di Lehman Brothers che ha fatto suonare l’allarme rosso. Ora le banche non si fidano più delle altre banche e quindi il denaro non circola, anzi, basta un’insinuazione perché cifre iperboliche vengano trasferite in tutta fretta verso istituti ritenuti più sicuri forzando la banca «sotto attacco» a chiedere aiuto e rafforzando il clima di panico.
Una versione videogame delle vecchie corse agli sportelli, così veloce da non lasciare il tempo per reagire. Come si interrompe questo circolo vizioso? È lecito sostenere, sulla spinta dell’emergenza, la pratica che si sperava confinata al passato dell’ingresso dello Stato nel capitale degli istituti di credito? Non essendoci veri precedenti, non si può essere categorici, tuttavia non si può trascurare il rischio che così facendo, invece di risolvere il problema gli si faccia fare un pericolosissimo salto di qualità.
Cerchiamo di semplificare: grazie all’irrisoria facilità con cui è possibile trasferire capitali enormi da una banca all’altra, chi ci garantisce che una volta che ogni Stato si sia acquistato un istituto di credito le altre banche vadano in difficoltà perché considerate «meno sicure»? E se lo Stato, a furia di ingerire banche, rischiasse di diventare esso stesso vittima dei trasferimenti di denaro in un gioco senza fine? In particolare l’Italia, dall’alto del suo pauroso debito pubblico, non avrebbe molte cartucce da sparare in un eventuale scenario di tutti contro tutti. Meglio a questo punto usare strumenti diversi, coordinati e sovranazionali e che si limitino a interventi di regolamento e garanzia, senza prevedere l’ingresso diretto dello Stato nel capitale bancario. La lezione l’ha data l’Irlanda, annunciando la garanzia dello Stato su tutti i depositi delle sue banche. Finché lo fanno solo loro è concorrenza sleale (ed è già cominciato il trasferimento dalle «normali» banche inglesi alle «sicure» banche irlandesi) ma se la mossa irlandese fosse adottata da tutta l’Europa si potrebbe risolvere il caos veramente alla radice: nessuno sposterebbe più denaro da altre parti, le banche continuerebbero a fare il loro mestiere, nessun bisogno di bruciare denaro pubblico in vani salvataggi di un singolo istituto. Tutto finito. Se la garanzia è credibile non viene sfidata e di conseguenza non costa nulla.

Si tratta di una cura aggressiva, spregiudicata, un po’ alla «Dottor House», ma potrebbe essere quella giusta. Occorrerebbe semplicemente che l’Europa riuscisse a fare quello che non ha quasi mai fatto: prendere una decisione seria come questa all’unanimità. Già, semplicemente.

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