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Il Nobel della Pace all’uomo che cerca di disarmare l’Iran

Gian Micalessin

Mohammed El Baradei, ovvero tre piccioni con una fava. Il Premio Nobel per la pace è stato consegnato al direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica in perfetta sintonia con il sessantesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki, un attualissimo richiamo alla necessità di fronteggiare i rischi di una proliferazione nucleare fuori controllo e «dulcis in fundo» l’occasione, sempre gradita ai giurati di Stoccolma, per una staffilata alla politica di «controllo armato» predicata da Washington. Poi, va da sé, il Nobel non si poteva consegnare solo al 63enne diplomatico e giurista egiziano. E così il Comitato di Stoccolma gli ha affiancato tutta quell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica rimasta dal ’97 sotto il controllo del direttore generale per tre mandati consecutivi.
«In un regime di non proliferazione nucleare - spiega la motivazione di un premio con 199 candidati - l’Aiea controlla che l’energia nucleare non venga male utilizzata per fini militari e il direttore generale si è distinto come avvocato, senza timore, delle nuove misure per rafforzare tale regime». Dunque un premio condiviso, ma decisamente modellato su quella figura di El Baradei che nelle stanze del Premio Nobel di Stoccolma - rigorosamente politically correct - ha tutte le caratteristiche per piacere. È un egiziano figlio del mondo islamico, è un alto funzionario dell’Onu, ha condotto i negoziati per arginare la corsa al nucleare nordcoreana, ma - soprattutto - ha caparbiamente tenuto testa alle richieste americane di utilizzare il pretesto della minaccia atomica per cacciare Saddam Hussein.
Un ruolo, quello di spina nel fianco dell’unilateralismo statunitense, che El Baradei ha sempre rivendicato con orgoglio. «Non si può accontentare tutti, questo è un lavoro ingrato e non puoi attenderti ogni volta un applauso generale», replicò sornione al giornalista inglese che gli ricordava il fastidio sollevato Oltreoceano con il suo rifiuto a sottoscrivere le accuse sui progetti nucleari del rais iracheno.
Un ruolo da guastafeste che El Baradei continua a recitare nella delicatissima e attualissima crisi sul nucleare iraniano. Nonostante le ripetute richieste di Washington e le intolleranze di Teheran, che ha strappato i sigilli dell’Aiea e ripreso la produzione di combustibile arricchito negli stabilimenti di Ishfan, El Baradei si è rifiutato di abbandonare il negoziato e di deferire la Repubblica Islamica al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite .
Strenuo sostenitore dei negoziati in «zona Cesarini» questo figlio dell’alta borghesia egiziana, diplomatosi giurista nelle aule dell’«americanissima» University School of Law di New York, non ha esitato ad usare il comitato esecutivo dell’Iaea per umiliare un’Unione Europea troppo allineata con Washington e troppo ostile alla ripresa dei negoziati con Teheran. È successo qualche settimana fa quando El Baradei mostrò pollice verso alla mozione presentata dalla Ue in seno al direttivo della «sua» Aiea per ottenere l’immediato deferimento di Teheran all’Onu.
Due settimane dopo il direttore ha appreso dalla televisione di aver vinto il premio Nobel della Pace assieme a tutta l’agenzia. «È stata una sorpresa assoluta, nessuno mi aveva preavvertito e ho sentito la notizia durante l’interruzione di un film. Sono saltato in piedi e sono corso a baciare mia moglie - ha raccontato il neo-designato premio Nobel per la pace.

Subito dopo ha spiegato che «il riconoscimento aumenta la determinazione mia e dei miei colleghi perché conferma che i temi principali all’attenzione del mondo sono oggi il pericolo del traffico d’armi nucleari, la loro presenza in molte zone del mondo e la prospettiva di un terrorismo atomico».

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