Nicolas Sarkozy pare aver ormai vinto il braccio di ferro con i dipendenti dei trasporti pubblici i quali, dopo nove giorni di sciopero consecutivi, sono quasi tutti tornati al lavoro. In Italia si commenta, morettianamente, che il presidente francese ha fatto «una cosa di destra», e ci si interroga sul perché da noi la destra non sia stata capace di fare altrettanto, nei cinque anni in cui ha governato. Colpa degli alleati centristi? Degli statalisti di An? Probabile. Ma, forse, la risposta va cercata più nel profondo: nell’indole stessa di noi italiani.
Sarkozy non ha compiuto un atto unilaterale: come spiega il nostro Alberto Toscano da Parigi, ha incontrato la controparte, ne ha ascoltato le ragioni, ha spiegato le sue. Infine è arrivato a una decisione, perché le trattative non possono essere infinite: e quella decisione non se l’è più rimangiata, neppure quando ha visto il Paese paralizzato dallo sciopero a oltranza.
In Italia sarebbe possibile vedere un film del genere? Ne dubitiamo. Da noi c’è sempre «un tavolo» attorno al quale sedersi; c’è sempre un nuovo soggetto con cui «concertare»; c’è sempre qualcuno da accontentare o perlomeno da non scontentare. Con tutti, poi, si può - anzi, si deve - scendere a patti. Negli anni Settanta, quegli degli scontri di piazza, poliziotti ed estremisti se le davano di santa ragione: ma non prima di essersi messi d’accordo su come e quanto darsele. I questori e i capibanda si incontravano e stipulavano un patto: vi lasciamo sfasciare tot vetrine e tot automobili, dicevano i tutori dell’ordine pubblico, purché lasciate stare questo e quello. «Così si limitavano i danni», spiegavano poi ai giornalisti.
Siamo il Paese dove «tutto si accomoda». Quando le Brigate rosse rapirono un tale Ciro Cirillo, assessore regionale democristiano della Campania (e lo rapirono, per inciso, dopo aver spedito al Creatore due agenti della scorta) lo Stato intavolò una trattativa incaricando i servizi segreti di pagare un riscatto. Come mediatore, fu scelto nientemeno che Raffaele Cutolo, boss della camorra. Un capolavoro in cui tutta l’Italia fu dunque rappresentata: mancava forse l’immancabile loggia deviata.
Naturalmente questo modus operandi ci ha sempre contraddistinti anche in politica estera. Quando, nell’estate del 1990, l’Irak invase il Kuwait, Bush senior disse: «Saddam Hussein si è annesso uno Stato sovrano con la forza. Ora, delle due l’una: o lo si costringe a rinunziarvi, o autorizziamo qualsiasi tiranno a imitarne l’esempio». Una posizione netta, o di qua o di là, e quindi troppo grezza per noi italiani, che per bocca di Giulio Andreotti impostammo così il problema: «Saddam Hussein ha certamente commesso una illegalità, ma bisogna indurlo a riparare attraverso il dialogo, riconoscendo che il suo atto di forza va inquadrato nel contesto di una risistemazione globale di tutto il problema mediorientale». E quando in un discorso ci sono questi tre termini - dialogo, contesto e globale - è subito chiaro dove si va a parare: a schifio.
Siamo il Paese delle sanatorie, dei condoni, degli indulti e delle amnistie. E quando si decide di usare il pugno di ferro di fronte a un’emergenza, accade quel che cantava Celentano: dal pugno chiuso una carezza nascerà. L’anno scorso, dopo la morte dell’agente Raciti, si partì con un: fermiamo il campionato. Poi ci si corresse: giochiamo, ma con gli stadi chiusi. Dopo di che si disse: chiudiamo solo la curva ai tifosi ospiti. Infine si tirò fuori una parolina magica, il «tornello», un aggeggio che avrebbe dovuto risolvere il problema, e che invece non ha risolto nulla. È il Paese in cui c’è sempre, come happy end, l’«avevamo scherzato». Come per le espulsioni degli immigrati irregolari beccati a delinquere: doveva essere un esodo biblico, se ne sono andati sì e no qualche decina.
Non è questione di destra morbida o destra intransigente.
È l’Italia: non l’America di Reagan, non l’Inghilterra della Thatcher e neppure la Francia di Sarkozy. Dalla quale, temiamo, prenderemo per buono solo un motto: «Laissez faire».
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