«Non si chieda all’immigrato di essere troppo simile a noi»

Luca Ricolfi è un sociologo - insegna metodologia della ricerca psicosociale a Torino - molto noto per i suoi studi sull’Italia contemporanea. Alcuni dei suoi saggi hanno provocato un vero putiferio nello stagno della cultura per nulla abituata a intellettuali di sinistra che critichino la sinistra: Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2008; Le tre società. È ancora possibile salvare l’unità dell’Italia?; La frattura etica. La ragionevole sconfitta della sinistra. Ecco le sue idee relativamente a un tema complesso come quello dell’identità nazionale.
Professor Ricolfi in Francia il ministero dell’Immigrazione ha lanciato un dibattito sul significato dell’essere «francesi oggi», un dibattito fondamentale anche per poter creare integrazione. In Italia è stata fatta una riflessione seria sull’«italianità»?
«Mi pare di no, ma magari sono io che non me ne sono accorto».
Quali caratteristiche, quali particolarità culturali, caratterizzano gli italiani (se ne esistono)?
«Se parliamo di tratti culturali comuni e che perdurano nel tempo mi sembra che i più importanti siano due: il trasformismo e l’individualismo. Il trasformismo percorre tutta la nostra storia, e presumibilmente è anche una reazione all’incredibile numero di dominazioni straniere cui gli italiani hanno dovuto adattarsi, dalla caduta dell’impero romano in poi. L’individualismo è un tratto che, in passato, ha rappresentato soprattutto una virtù, un punto di forza degli italiani nel mondo, che grazie a inventiva, fantasia e intraprendenza hanno sfondato in molti campi. Oggi mi sembra diventato un handicap, perché spesso significa chiusura, miopia, narcisismo, incapacità di azione collettiva. C’è poi forse da aggiungere un terzo tratto, ma in negativo: la povertà lessicale. L’Italia, un tempo culla della civiltà classica, è uno dei pochi posti in cui la maggior parte delle persone ha imparato la propria lingua non dalla famiglia (dove fino agli anni cinquanta si parlava ancora in dialetto), non dalla scuola, bensì dalla televisione, cui si deve quel miracolo (?) che è “l’unità linguistica degli italiani”, secondo la nota ricostruzione di Tullio De Mauro. Oggi il principale problema culturale dell’Italia, nel senso che sta alla base di qualsiasi altro problema più serio, è la povertà della lingua, sia in senso lessicale sia sotto il profilo della capacità di organizzazione del pensiero».
Quali sono invece le differenze che rischiano di minare il nostro senso «nazionale»?
«Una su tutte, la frattura Nord-Sud. Che però non riguarda gli italiani quando operano all’estero, ma gli italiani in patria. Quando vanno fuori dei confini nazionali un napoletano e un torinese sanno essere semplicemente italiani. Quando invece stanno a casa loro un abisso li separa: noi torinesi non avremmo sopportato nemmeno per una settimana l’immondizia nelle strade, e non avremmo aspettato tanti anni per liberarci di Bassolino».
Si chiede a gran voce agli stranieri disponibilità ad integrarsi... Ma il nostro Paese fornisce davvero un modello chiaro a cui avvicinarsi o tentare di attenersi?
«Qui secondo me c’è un equivoco, che nasce dalla verbosità, dalla retorica, o forse semplicemente dal deficit di liberalismo della nostra cultura. Per integrare gli stranieri non serve un vero e proprio modello culturale, fatto di tradizioni, usanze, sensibilità che, molto presuntuosamente e paternalisticamente, si vorrebbero passare agli altri. No, integrazione dovrebbe significare poche cose semplici e “minimissime”: saper parlare la nostra lingua, rispettare un paio di principi generali (rifiuto della violenza, separazione fra politica e religione), obbedire alle leggi, rispettare i costumi locali più radicati, dai presepi alle norme igieniche. Fine. Il resto della nostra cultura dovrebbe essere un optional. Agli immigrati non si può chiedere di somigliarci, ma solo di imparare a vivere con noi, rispettando le nostre consuetudini. Esattamente come facciamo noi a casa loro, quando ad esempio ci togliamo le scarpe per visitare una moschea».
Si parla spesso di un’Italia che subisce ancora gli effetti di un Risorgimento elitario e non condiviso dal basso, di un’unità nazionale imposta e non condivisa. È così?
«Non saprei, però mi sembra che per spiegare il deficit di unità nazionale non sia obbligatorio invocare l’elitarismo risorgimentale. Forse basta ricordarci che l’individualismo è la costante della nostra storia, e che l’Unità d’Italia, prima ancora di essere il sogno e il frutto di pochi, è stata per quasi un secolo un processo che ha penalizzato il Sud. Un punto su cui, di recente, gli storici dell’economia hanno portato prove nuove (penso in particolare agli studi di Paolo Malanima e Vittorio Daniele)».


Se sì quale potrebbe essere la «ricetta» per sanare questa frattura sociale ormai vecchia più di un secolo?
«Riconoscerne freddamente l’esistenza. E smetterla con la retorica unitaria, che nasconde senza far capire».

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