Non si può normalizzare la droga

La reazione del ministro della Salute Livia Turco di fronte alla sentenza del Tar che boccia la sua legge sulla droga è come quella di un farmacista - vecchio stile - che litiga con il suo collega perché sostiene che 20 grammi in più di glicerina fanno migliore la supposta. La droga, le sostanze stupefacenti non si affrontano con il bilancino del farmacista e con gli occhiali sul naso per decifrare i milligrammi, ma alzando lo sguardo alla storia dell’umanità e con gli occhi che leggono tra le pieghe della cultura.
Con questa visione un po’ più spaziosa della bottega del farmacista, ci si accorge che gli stupefacenti, prima ancora di essere sostanze da assumere, sono principi di anticonformismo sociale. Dalle culture pre elleniche, agli albori della civiltà occidentale fino alla nostra contemporaneità (quando si pensa a uno stupendo poeta come Charles Baudelaire, a un grande filosofo come Walter Benjamin, a un genio come Gabriele D’Annunzio) le droghe sono state la scintilla che ha acceso i fuochi dell’immaginazione poetica, filosofica, artistica. Fuochi individuali di spiriti eccezionali: la massa era esclusa, anzi era proprio ciò da cui soggettivamente ci si voleva distinguere.
La droga è letale per la salute: è da stolti discutere su un grammo in più o su un grammo in meno. Ma essa è anche il simbolo di una sfida drammatica ed esaltante ingaggiata dall’intellettuale che spera di potenziare oltre ogni limite naturale le sue facoltà cognitive e creative, rivestendo così anche un ruolo antagonista rispetto alla normale vita conformista dei suoi concittadini.
Ma il governo di un Paese deve amministrare la vita di un popolo all’interno di regole e non rappresentare le esigenze di eccentrici individui, sia pure geniali. Il governo di un Paese deve perseguire una politica ispirata a principi morali maturati nella tradizione del proprio popolo e non preoccuparsi di esaltare le differenze e gli anticonformismi che si innestano nel corso tradizionale della storia di un popolo. La cosa interessante (o preoccupante) della legge Turco, appena bocciata, era proprio questa filosofia che intende trasformare la droga in un consumo quasi più normale del fumo, come una logica, appunto, da farmacista per cui si può aggiungere sul bilancino qualche grammo perché tanto non fa male, anzi fa meglio.
Poiché basta guardare in faccia il ministro della Salute per capire che non si ha a che fare con un tipo che molla tanto facilmente, c’è da aspettarsi che riproponga la propria legge dopo aver scovato qualche via di uscita per aggirare la sentenza di bocciatura del Tar. A questo punto, sulle ali dell’entusiasmo della sinistra radicale, ci troveremo una legge che, ricalcando nella sostanza quella respinta dal Tribunale amministrativo, sarà un vero disastro non solo sul piano della salute, ma anche su quello della comunicazione. Avremo una legge sulla droga che ratifica l’organizzazione conformista dell’anticonformismo.
La conseguenza è paradossale. Innanzitutto si annulla qualsiasi attenzione all’informazione sulle conseguenze provocate dall’assunzione di droghe, quasi fosse un fatto irrilevante o scontato. C’è più preoccupazione a comunicare i danni provocati dal fumo che dalle droghe, le quali, essendo «leggere» - come dice la legge -, possono di conseguenza essere prese con leggerezza. Per il fumo, ad esempio, ci si preoccupa di effetti genericamente «morali»: rispetto dei vicini non fumatori, proibizione dei locali pubblici ai fumatori, campagne di dissuasione eccetera, eccetera. Per quanto riguarda la droga, ci si preoccupa degli spacciatori, ed è più che giusto, ma non dei consumatori, se non, appunto, con la logica del farmacista che afferma che qualche grammo in più non fa male ed evita la galera.


Ma in secondo luogo, l’organizzazione conformista dell’anticonformismo, propria della scaduta e futura legge Turco, toglierà qualsiasi piacere trasgressivo e suggestione emotiva all’ispirazione creativa di eccentrici poeti e filosofi. Insomma, avremo lo spinello di massa e l’estinzione di geni come Baudelaire e D’Annunzio.
Stefano Zecchi

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