«Il nostro bimbo lasciato morire trascurato da medici e giudici»

Ricoveri inutili, diagnosi approssimative. Poi la fine atroce. Ma nonostante le denunce della famiglia il caso è stato archiviato. E le carte perdute due volte

Un bambino sballottato da un ospedale all'altro. La febbre, le convulsioni e una diagnosi che non arriva mai. Poi la morte che a soli 10 anni si porta via il piccolo Luca. Il nemico da combattere per giorni e giorni resta senza nome, fra ricoveri, ritorni a casa, visite, esami che non portano a nulla. Luca sta male, sempre peggio, vomita, ha la febbre. Troppi giorni. Troppi esami. Troppi ritardi. La prima Tac viene effettuata, e ci si chiede il perché, dopo quasi una settimana di sofferenze e non viene letta in modo corretto. Anzi, c'è il sospetto, atroce, che un farmaco dato per via endovenosa abbia scatenato il killer finale di Luca: la trombosi. Una trombosi devastante che uccide il bambino il 3 aprile 2009. Un incubo, per chi ne ha portato il peso insopportabile, ambientato fra San Daniele del Friuli e Udine, dove il Nordest pare una cartolina. E invece no. Perché la storia di malasanità è solo il primo tempo di una vicenda imbarazzante che è andata avanti stancamente, sempre più distrattamente, in tribunale. «Nostro figlio, il nostro unico figlio - racconta la signora Anna Martella - è stato curato male e in ritardo, più di un medico non ha capito nulla di quello che stava succedendo, ci parlavano di virus, di influenza, di non so che altro, ma quello che è successo dopo, se possibile, è anche peggio. La giustizia si è dimenticata di noi, ci hanno letteralmente umiliato. Noi non pretendiamo di avere ragione, ma almeno di poter esporre le nostre ragioni. La sensazione che abbiamo avuto è stata invece di tutt'altro tenore».

Certo, l'inchiesta era difficile, la malattia grave e, poi, si sa, tutti i genitori davanti a un lutto insostenibile come quello di un figlio spesso ragionano con le lacrime e non con la testa, ma qui accadono cose strane. L'indagine della procura di Udine corre veloce verso l'archiviazione. Per il pm i camici bianchi hanno fatto il loro dovere. O comunque non si può loro imputare nulla. A quel punto l'incartamento passa al gip, ma la famiglia, attraverso l'avvocato Fabio Pes, si oppone all'archiviazione. È una procedura standard disposta dal legislatore per tutelare le presunte vittime di quel presunto reato. Il giudice convoca un'udienza, ascolta le parti, poi decide se chiudere il caso o riaprirlo. Sorpresa. A Udine il gip non chiama nessuno: è come se l'opposizione non ci fosse mai stata. Che fine ha fatto quel documento? Mistero. E' sparito. Missing. L'avvocato Pes, incredulo, fa ricorso in Cassazione e la Cassazione gli dà ragione. Le carte tornano alla procura. L'errore, grave e inammissibile, è stato superato. Ma al peggio non c'è limite. Il 29 febbraio 2012 la procura chiede per la seconda volta l'archiviazione e per la seconda volta la famiglia si oppone. Pare impossibile ma per la seconda volta il documento scompare, si inabissa in qualche cassetto o viene smarrito fra un corridoio e l'altro del Palazzo di giustizia di Udine. Per fortuna l'avvocato Pes ha con sé la ricevuta e non può far altro che ricorrere ancora una volta in cassazione. Non solo: il legale scrive una lettera accorata al procuratore capo per manifestare tutto il proprio disagio davanti ad una situazione intollerabile. Il magistrato, Antonio Biancardi, ritiene di non rispondere; Pes chiede allora un incontro chiarificatore, alla presenza dei genitori scottati da una vicenda umanamente così delicata, ma il colloquio non viene accordato. Parte allora un esposto in procura che, ad oggi, non ha avuto alcuna risposta. L'unica notizia buona arriva dal gip: questa volta il giudice si corregge da solo, o meglio non aspetta la solita tirata di orecchie dalla Suprema corte. No, rimette in moto, autonomamente, la procura. I giochi però, sono fatti. Il pm chiede per la terza volta l'archiviazione che arriva puntuale come un treno svizzero e non accoglie le osservazioni della famiglia Martella.

Anna e Marco Martella vivono in Friuli da molti anni, ma sono pugliesi di Cellino San Marco, il paese di Al Bano. E il celebre cantante è loro vicino: «Seguo questo dramma - spiega al Giornale - con affetto e trepidazione». Le porte si sono chiuse, ma i coniugi non si arrendono. E forse qualcosa si può ancora fare. Inizierà una causa civile.

E poi nelle prossime settimane l'avvocato Francesco Maiorana presenterà un ricorso alla Corte di Strasburgo: «I signori Martella chiedevano giustizia, invece giustizia non è stata fatta. Anzi, i loro diritti fondamentali sono stati calpestati». La battaglia continua. Adesso in Europa.

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